Tutto l’universo obbedisce al ritmo: la ricetta per restare vivi in una cucina vigliacca

di Rosanna Frattaruolo

Tutto l’universo poetico di Tarquini sembra obbedire ad un solo ordine: il ritmo che produce le uniche strane linearità all’interno del caos.

Cucina Vigliacca, ricette per rimanere in vita (Affiori edizioni, 2024) non presenta partizioni; è un open space in cui i testi – diversi strutturalmente e introdotti da titoli – convivono nell’unico ambiente Libro senza pareti divisorie di alcun genere.

Incuriosisce la presenza di vari registri di scrittura, tanto che tutto sembra apparentemente in disordine: assieme a testi prosastici a verso libero (Moka, Languore, ad esempio), ve ne sono di monorematici (come Spine); alcuni fotografano il vissuto quotidiano (nel gesto di caricare la moka, di mettere la sveglia), altri, evocativi e misteriosi, si collocano in un altrove impreciso: «Accerchiano il mio re i fa diesis, / e silenzioso oramai sulla scacchiera, / il perimetro diventa grandine» (p. 53).

La struttura strofica variabile si traduce in testi narrativi alquanto lunghi alternati ad altri di pochi versi, fino al distico Prisma: «Con barbari inneschi danzeremo, / tra gli spicchi di un sole liminale». La scrittura poetica di Tarquini non risponde alla cosiddetta metrica chiusa; potremmo parlare di una dimensione verso-liberista nella quale la struttura dei testi presenta un ritmo – che è proprietà naturale del linguaggio – modulato con indubbia musicalità, tratto distintivo di tale poetica.

Negli stessi testi narrativi che paiono rispettare l’ordine sintattico, ad un certo punto, s’inciampa e la linearità della struttura cede il passo a singhiozzi di parole – «Chiedimi un passaggio per l’estate indiana, / torrenti mascherati dalai lama, / acrobazie,/ altalene / parlare per ore restando in silenzio.[cuore svuotato, tasche piene di biglie, semi di basilico]» – o ad anastrofi – «il profilo tuo non trovo» (p. 24). Da chiedersi se, di volta in volta, la scelta di come costruire il testo sia del tutto umorale.

Il palcoscenico che ospita l’azione è una cucina dalla quale partono lunghi corridoi di memorie, visioni – «Starei per ore a guardarti / mentre stacchi gli adesivi dal muro di camera tua» (p. 13) – e previsioni – «Perderai ancora tempo con le bolle di sapone, / con la pace bipolare e gli adesivi di liquirizia» (p. 17) –, in cui il protagonista si ostina nel dialogo con chi ha appena abbandonato la scena.

L’atmosfera casalinga evoca tutte le emozioni e i sentimenti degli amori finiti: la malinconia, che «è un numero disparo» (p. 34) e che trasuda dolcezza in quell’«Abbraccio metà della tua assenza», si alterna al senso di perdita: «Così “m’aggrapperò a quella fetta di vuoto e di te stessa / per non perdermi, sui sentieri lungolago della notte»; e può sfociare nella disperazione: «un delirio spiovente è la tua assenza» (p. 24). L’incapacità di abbandonarsi alla rassegnazione – «Il profilo tuo non trovo, / rabdomante sui sentieri di una stella» oppure «Il tempo che passa ci allontana, / ci avvicinano le prospettive di via Piccolomini, / il futuro è un tappeto di lana e numeri pari. / Non fare il biglietto!» – cavalca l’illusione – «M’illudo, / lungo i bordi della notte, / sospiri. [tutt’intorno una luce malcelata]» (p. 28) – e la speranza: «sto aspettando come un’onda il tuo ritorno» (p. 16).

Un amore fatto di comunione di spazi e interazioni che ha lasciato traccia negli oggetti, rimasti al loro posto e rianimati dal poeta attraverso il ricordo dei gesti caricati di significato poetico: «Ora abbassa le serrande, carica la moka / e ricordati di mettere la sveglia, / domani hai tante cose da fare, / chilometri di pensieri da sopportare o seppellire» (pp. 11-12), «Rimetti l’acqua in frigo, / le barche dei pescatori ferme al porto» (p .22). Ed è così che l’aggettivo Vigliacca non pare destinato a chi abbandona il nido, ma al luogo capace di far riaffiorare i fantasmi: «Quando mi hai scritto, / avevo appena finito di sognare: / c’eri tu perfettamente a tuo agio, / non pioveva da mesi / e avevo casa piena di fantasmi» (p. 57).

Echeggiano rumori nell’intera raccolta: «ridi forte tra i viali alberati» scrive il poeta a p. 11; e poi «ridi ancora come un paese» e «passeggiando per Torino /[…] la notte intorno strillava»; e, ancora, «una canzone nuova, un altro pubblico di Karaoke» (p. 21) e rondini urlanti «tra fronde spesse [che] ridono di me».
E se (p. 27) «Esili le campane della domenica […] / Mi divorano con un canto assimilabile le trame strappate della vita / sottraendo al vostro scorrere / il tempo della morte», «dall’altra parte della città i Massimo Volume / suonano Meglio di uno specchio (p. 43).

«Odi? La pioggia cade /su la solitaria /verdura /con un crepitío che dura /e varia nell’aria / secondo le fronde / più rade, men rade. / Ascolta. Risponde / al pianto il canto / delle cicale / che il pianto australe / non impaura, / né il ciel cinerino. / E il pino/ ha un suono, e il mirto / altro suono, e il ginepro / altro ancóra, strumenti / diversi/ sotto innumerevoli dita»1. A un certo punto, anche se Tarquini non usa verbi onomatopeici che simulano precipitazioni, la pioggia diviene colonna sonora dei testi: lo stillare del «sangue goccia a goccia [in un] crocevia tra migrazioni di rettili» (p. 51) s’intensifica fino a divenire pioggia battente (p. 49).

E poi, il suono della parola, come già anticipato, diventa strada cardine nella strutturazione dei testi: allitterazioni, consonanze, ricorrenze di suoni nelle parole o anafore (a p. 35 la parola Sangue viene ripetuta come mantra più volte a inizio verso) o ripetizioni di versi (a p. 34 Non fare il biglietto! come un ritornello compare più volte nella composizione del testo). A p. 46, «persi tra Forca d’acero e vecchie cicatrici», si coglie il rumore di forchette rimbalzare sul davanzale.

La pioggia evidenzia un altro elemento sì caro ai nati sotto il segno del Cancro, come Tarquini: l’acqua! È una scrittura che vive tra le pagine una dimensione liquida, si nutre dell’acqua e della sua memoria: nel testo a p. 49, Pachiderma, «la pioggia battente tiene accostata la porta / ed un cielo intrepido infierisce / non mi resta che scriverne».
Scrive l’autore a p. 21: «le acque mnemoniche si aprono». Per la cultura giapponese Hado è la capacità dell’acqua di memorizzare informazioni e vibrazioni provenienti dall’ambiente circostante e che comprende non solo molecole concrete, ma pensieri, parole, musica e immagini.
E così, l’acqua incapsula la mancanza e la restituisce nell’immagine del ritorno, quale risacca di mare – «sto aspettando come un’onda il tuo ritorno» (p. 16). La stessa acqua accoglie il dolore e lo trasforma nel morso di murena che non devasta, ma logora lentamente (p. 55); poi, tra Angostura, Pastice, Corona, prosecchi e Biancosarti, diventa sangue (p. 35), la parola più usata nel libro: «ogni goccia di musica tempesta / e tutto intorno a me / sanguina irreale» (p. 56).
Ora, si dice che Il vino fa buon sangue, ma più che in cucina, pare di essere seduti al bancone di un bar. Resta il dubbio se tutta quest’acqua (etilica e non) sia votata alla salvezza o all’annegamento.

«Al / vostro / obeso / subordinato / vivere / il / nostro / libero / diversamente / andare». Così il testo Vivere – fuori dal coro, considerando che nei testi precedenti v’è un unico destinatario del soliloquio poetico – chiude la Cucina vigliacca: il poeta suggerisce alla comunità, come risposta al subordinato vivere, la ricetta per rimanere in vita: un diversamente andare.

1Gabriele D’Annunzio, Alcyone in Versi d’amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Mondadori, Milano, 1993


Estratti dal libro

Murena

Il tuo profilo attento è un morso di murena,
mantiene segreti sorrisi.

Non devasta se colpisce l'onda,
ma logora lentamente refrattari laterizi.

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Stefano Tarquini è nato a Roma il 28 giugno 1978, e risiede a Guidonia. È talent scout letterario presso Read(y), programma radiofonico di Radio Kaos Italy, editor di poesia presso la rivista e casa editrice Super Tramps Club, ideatore e conduttore del festival di poesia Argini, e del format streaming sulla poesia italiana Sour Poetry. È, altresì, direttore artistico del festival di musica indipendente Pecora Nera Festival, nonché voce presso i Palkosceniko al Neon e presso il gruppo spoken word L’Amorte.      
Organizza laboratori di poesia nelle scuole, in case famiglia e nelle carceri.
Le sue poesie sono apparse su Specchio di Repubblica (a cura di Maurizio Cucchi), Limena Pastiche, Versolibero, Suite italiana, Asterorosso, La seppia, Intermezzo Rivista, Di sesta e di settima grandezza, Poetry Factory, Scemo Magazine, Leggere Poesia, L’Ottavo, Poesia Ultracontemporanea, La rosa in più, Poeti dal parco, Transiti Poetici, Cartoline Volanti, Scarceranda 2021 e Scarceranda 2022.
I suoi racconti sono stati pubblicati su Romanagua, Voce del verbo rivista, Racconti dal crocevia, Smezziamo, Birò, Tremila Battute, Mannitòlo, L’incendiario, Sulla quarta corda, Quaerere, Dowtobacker, In fuga dalla bocciofila, Eisordi Rivista, Super Tramps Club, Mirino, Multiperso, Senza Dieci, Madre, Turchese, Fumo – Rivista letteraria, La nuova carne, Topsy Cretts e L’equivoco.
Ad agosto 2021 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, “I giorni furiosi”, per Transeuropa Edizioni.
A novembre 2021 e a giugno 2022 ha pubblicato, rispettivamente, i volumi 1 e 2 della raccolta di racconti “Irrequiete” per Another Coffee Stories.


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