
‘NDRANGHETA è la recente silloge firmata da Alfredo Panetta, edita da Passigli Poesia con prefazione di Antonella Anedda e nota di lettura di Don Luigi Ciotti. Una raccolta poetica che si presenta come un corpo unitario, compatto e attraversato da una forte tensione etica. Il libro non nasce come semplice insieme di liriche, ma come progetto coerente, quasi un poema civile disseminato, in cui ogni testo concorre alla costruzione di una visione complessiva. A orientare la lettura è già l’epigrafe di Enzo Ciconte, che chiarisce la prospettiva: la ’ndrangheta non come mero fenomeno criminale, ma come sistema culturale, forma di potere, modello sociale radicato. Panetta assume questa complessità e la traduce in poesia, scegliendo di non raccontare la cronaca, ma di indagare il tessuto profondo di una terra, il suo immaginario ferito, i meccanismi visibili e invisibili dell’oppressione. Il risultato è un libro che si muove tra etica e lirica, denuncia e meditazione, con una struttura che invita a una lettura continua, non episodica, coinvolgente.
La scrittura di Panetta, in questo recente lavoro, è aspra, lucida e necessaria. Non cerca il compiacimento, non indulge nel pittoresco e neanche addolcisce il male. Il verso è spesso tagliente, materico, costruito su immagini potenti che coinvolgono il corpo, la terra, il respiro, la ferita. La metafora non serve a velare, ma a rendere ancora più evidente la realtà: intensifica il dolore, lo rende percepibile, quasi tattile. Credo che la forza del libro risiede proprio in questa tensione: una poesia che non si appoggia alla musicalità come rifugio, ma alla parola come strumento di scavo. Ogni testo contribuisce a costruire un campo semantico in cui violenza, identità, memoria e paesaggio si intrecciano in modo indissolubile.
La Calabria che emerge in ’Ndrangheta non è mai decorativa. Non c’è una natura innocente e contemplativa: la terra diventa superficie dove si consuma un trauma: paesaggio morale prima ancora che geografico. Fiumare, colline, vento, polvere, ulivi si caricano di senso storico, diventano parti di un corpo collettivo ferito. Il Sud di Panetta è un luogo ambivalente, dove la bellezza convive con il veleno, dove la memoria si stratifica come sedimento. In questa geografia poetica la natura non assolve, ma testimonia: trattiene i segni, custodisce il dolore, restituisce interrogativi.
Uno dei nuclei più forti della silloge è la decostruzione dell’ideologia dell’onore. Panetta smonta la retorica che sostiene la ’ndrangheta, mostrando come la violenza non sia solo gesto o atto violento, ma un linguaggio, una sorta di ritualità fino a giungere alla possibilità di una trasmissione educativa deviata. Il male non appare come eccezione, ma come sistema che si autoalimenta, che cresce nella rassegnazione e nel silenzio. In questa prospettiva, la poesia si fa strumento critico: non descrive soltanto, ma rivela. Illumina i meccanismi, ne mostra la logica interna, ne svela l’arbitrarietà. E proprio in questo gesto risiede la sua forza politica più autentica, che il poeta riesce a far emergere in tutta la sua potenza lirica.
La voce poetica non parla mai da una posizione neutra: esiste un coinvolgimento profondo, una partecipazione etica che si traduce in empatia vigile. Panetta non guarda da lontano, ma abita la ferita, la interroga, ne ascolta l’eco. La memoria, qui, non è commemorazione ma atto: responsabilità verso chi ha subito, verso chi resta, verso una comunità che ancora cerca parole. Il poeta si fa testimone non per giudicare, ma per restituire dignità al dolore, trasformandolo in coscienza condivisa. È in questo movimento che la poesia supera la denuncia per diventare uno spazio di resistenza morale.
In conclusione ’Ndrangheta è un libro “necessario”, rigoroso, attraversato da una voce che unisce lucidità critica e profonda umanità. Alfredo Panetta costruisce una poesia che non teme il reale, che non trasforma l’orrore in estetica, ma lo attraversa con responsabilità e misura. La sua è una scrittura chiede attenzione, lentezza e profonda consapevolezza.
Nota di lettura a cura di Antonio Corona.
Estratti da ‘NDRANGHETA
RESISTENZA
E chi li fotte questi?
Che hanno imparato l’alfabeto dell’astuzia.
Che sanno della città ogni metro quadro
a quanto guadagno, a quanto prestigio porta.
Ormai hanno in tasca lingotti di mattone.
Chi oserà fotterli?
Che dalle montagne hanno appreso
il malcontento, e il nichilismo dalle umiliazioni.
Tra i denti la furia dei cavalli
tra le dita le ragioni del coltello.
Non li fotte nessuno, questi.
Sono un popolo allenato al latrocinio
ti impongono le loro leggi anche nei sogni
neanche i preti sanno opporre argini
né i giudici con aggiornati codici.
Chi li fotte gli uomini del digitale onore?
Rinnovano ogni giorno gli obbiettivi
visionari come i sistemi informatici
sanno potare lingue o seminare odio
sono l’armata del pensiero debole.
E chi può fotterli, ormai?
Comprano anime come un tempo in Russia
con bonifici sparati a canne mozze
gli scheletri sono mezzi di estorsioni
han fede cieca nel dio minore Euro.
E chi li ferma questi?
Se non noi, i Morti. Perimmo a migliaia
sotto il loro piombo. Falci contro
kalashnikov, nell’aria a fuoco, vicini
al mare infranto. Fummo sepolti
Senza sudario e bara. Ma noi dal buio
aborriamo il silenzio. Ogni nuova
semenza è opera nostra. Sbocciano
le menti di un glorioso futuro.
*
ACQUA DI FIUMARA
a Rocco Gatto
Le mani in tasca, rigide
un’inquietudine non giustificata
dall’indole coriacea;
profumo di scorza dura
e farina lievitata
in ogni sillaba espulsa
in ogni cenno rubato.
Quant’acqua è passata
dalla fiumara IannIzzi
e quanta ne servirà
affinché lo Jonio si pacifichi.
Si potesse almeno immaginare
per un secondo o niente
una storia del Sud senza uomini
e fuochi, senza carne bruciata
o coltelli tra i denti. Una terra calma
completamente bianca
sospesa, i piedi nel presente.
Al venditore di spezie
in piazza la domenica
rinnovavi il tuo grazie
per le mani nude di sudore, sorelle
alle tue. Allo ’ndranghetista
a fianco non sputavi
solo per rispetto del catrame.
Tu che tutto o quasi sapevi
e che nulla temevano
i tuoi sogni, il tuo amore
inscindibile dai luoghi.
E’ la tua voce che dal basso
ancora rinasce, d’un ombra
che porta in omaggio
non solo la sua croce.
Una semplicità covata nella brace
e nelle pale del mulino
un’arsura che fatica
ad essere saziata, il richiamo
ancestrale dei ciottoli.
Più non ti curi
di chi semina frutti avariati,
di chi li raccoglie o li rivende
ma dei calli pietrosi dei braccianti
che il tempo fatica a levigare.
E sia soffio di bellezza
ogni pugno di farina.
*
VOCE DI PADRE
a Gianluca Congiusta
Ho veduto, mi siate testimoni
una rosa cadere in fondo al pozzo
una spina recidere due vene
lo scirocco rabbioso sui calanchi
ho visto la fine
nel fiato sprezzante dell’attesa.
Da padre ho veduto, mi siate testimoni
spremere fogliame di veleno
su rivoli che invadono le strade
ho visto ardere bracci di montagne
senza un pensiero per le loro radici
né un pugno d’acqua sulla cenere.
Ho visto rifiuti intasare le fiumare
dove resiste l’inula viscosa
e la volpe va in cerca di una preda
o un rifugio per i sogni arresi.
Ho visto il granchio di fiume
accoppiarsi di notte con le pietre.
Io vedo, mi siate testimoni
pecore disperdersi sui colli
luminosi. Uomini piccoli
ad arte mascherati, cui resta
come appiglio un’infame parola.
Questa è una terra male concimata
assuefatta all’ignavia, alle angherie.
Si aspetta un’alba, che sia liberata
ma i turchi, i lupi siamo noi.
I lupi, i turchi siamo noi.
*
SERPI E GELSOMINI
È come un polpo sbattuto
sugli scogli questa brezza
gelida che schiaffeggia le ossa.
Sorge in profondità il fiume
d’abbandono che arma il pugno ai padri
e trascina i figli alle caverne.
Non più di zagare l’aria
ha profumato quest’autunno
ma del sangue feroce sul costato.
Una raffica di polvere soffoca
il respiro di una terra che figlia
serpi e gelsomini dallo stesso sputo.
Nessuno si permetta di scagliare
fango a caso o di tacere.
Nessuno s’azzardi a dire: io non c’ero.
Questa storia di colpevole
cecità ci indichi il pudore, almeno
e getti una zavorra dall’orrore.
Dalla prefazione di Antonella Anedda
’Ndrangheta, ultimo libro di Alfredo Panetta, ribadisce la vita che continua ad avere la lingua altra dei dialetti, conferma la loro necessità nell’italiano. Dal loro margine apparente infatti e in particolare dall’area mediterranea arriva qualcosa che non è possibile ignorare. Panetta scrive nel linguaggio della Locride, sua terra natale. La sua poesia da sempre coniugata con temi civili (come Ponti sdarrupatu sul crollo del ponte di Genova con la prefazione di Giovanni Tesio) trova in questo libro nomi ulteriori da fissare sulla pagina, come quello di Francesco Panzera, vicepreside del Liceo di Locri assassinato perché si era opposto all’ingresso dell’eroina nell’istituto e che era stato professore di matematica dell’autore. (…)
Panetta denuncia un intero sistema attraverso l’osservazione non idilliaca di un paesaggio di querce e faggi, di zagare e serpi, cioè quello che deve sui viventi che dalla stessa paura dei loro carcerati condensata in una raffica di mitra. Chi conosce l’orrore del sequestro, il duplice fisico e mentale in cui una persona privata della libertà viene buttata, sa che il male è profondo e i gesti della scrittura minimi ma altrettanto costanti: manciate di parole che ci ostiniamo a sistemare una vicino all’altra, imparando da sempre a fare un fuoco calibrando foglie, legni e sterpi.(…)
Dalla nota di Don Luigi Ciotti
’Il linguaggio poetico ha sempre una forza, un’immediatezza che ci sorprende, ma a volte anche ci turba. Nel caso di Alfredo Panetta, è un linguaggio che a tratti addirittura disturba e costringe a sospendere la lettura, trafitti da un dolore che si manifesta senza riguardi. Questo dolore non viene addomesticato attraverso le parole, ma anzi trova nelle parole uno strumento potente per uscire dalla dimensione privata e farsi denuncia pubblica dell’ingiustizia.
Ho molto apprezzato le sue poesie, ricevute attraverso un’amica comune, per la loro sincerità e musicalità. In questi versi, a partire dalla scelta del dialetto – lingua-madre per eccellenza, viscerale e diretta – si respira l’amore del poeta per la sua stupenda terra d’origine, la Calabria, ma anche la delusione, un sentimento d’esilio e respingimento. Perché quella Calabria amata sembra talvolta incapace d’amore, soggetta a una violenza feroce che travolge vite innocenti e calpesta ogni speranza di futuro. (…)
Proprio come dice in un suo verso, Alfredo Panetta sa “impugnare la penna come un manico di zappa, usare la conoscenza per forgiare bacchette magiche” e smascherare l’indifferenza dilagante, la sensazione di resa e di abbandono di fronte alle ingiustizie, agli abusi, alla morte di persone innocenti e alla disumanizzazione di tante altre. Non solo in Calabria, né solo per mano mafiosa! Questo grido riecheggia il grido di altri popoli oltraggiati dalla violenza, che in altre terre e in altre lingue affidano ai propri poeti la richiesta di non essere dimenticati. (…)
Alfredo Panetta è è nato nel 1962 a Locri (RC). Nel 1981 si trasferisce a Milano dove tuttora vive e lavora nel settore infissi in alluminio. Scrive nella lingua madre, il dialetto calabrese reggino della Locride. Ha pubblicato 5 raccolte di poesia: Petri ‘i limiti (Pietre di confine, Moretti& Vitali, 2005); Na folia nt’è falacchi (Un nido nel fango, Edizioni CFR 2011); Diricati chi si movinu (Radici mobili, Ed. La Vita Felice 2015); Thra sipali e sònnura (Tra nidi e sogni, Puntoacapo 2018); Ponti sdarrupatu (Il crollo del ponte, Passigli 2021). Vincitore dei premi: Montale, Pascoli, Gozzano, Noventa-Pascutto, Malattia della Vallata, San Domenichino, Premio InediTo colline di Torino. Per la Casa della Poesia Al Trotter di Milano cura una rubrica dedicata alla poesia scritta nelle lingue di minoranza in Italia. Ha organizzato per 4 anni dei laboratori di scrittura poetica per bambini delle scuole primarie negli istituti di Lecco e Gallarate.
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