a cura di Rosanna Frattaruolo

Francesco Macciò della poesia dice

La poesia muove da una persistenza di immagini e di voci nella memoria. Sono percezioni che si dispongono in una concentrazione di forze nell’attesa di essere liberate e di trovar casa in una costruzione di parole.
Più che di una di nuova nascita, si tratta di una procedura di espropriazione, tanto che ciò che preesiste e insiste nella memoria, quando prende forma di scrittura in versi, anche attraverso stratificazioni successive (le cose non dette sono destinate a un vuoto che le attende), stabilisce un rapporto di inappartenenza con chi involontariamente lo ha portato alla luce, e lo espone ogni volta a un’attesa di esistenza.
La poesia nessuno può asserire di possederla, tanto meno il poeta, transfuga inarrestabile nel suo solitario stupore, che non consola ma è consolato, non possiede ma è posseduto.
Un cieco che brancola su tombe vuote, così Foscolo di Omero: il poeta non ha che il nulla davanti a sé, tutto è maceria dietro di lui; non vedente ma veggente sente voci che lo mettono in cammino, ha visioni che “dettano dentro”. La poesia nasce dal ricordo di queste visioni, di queste voci.
È tutto un rifluire dalla cenere che il fuoco ha lasciato… tutto un ricostruire decostruendo.
È figlia della memoria, la poesia, come le Muse che della poesia sono la voce. Incipit vita nova: non una vita contraria, esiliata in se stessa, dice Dante, ma una vita nuova, via di salvezza, comincia dal «libro della memoria». E Memoria (Mnemosine) è figlia del Cielo e della Terra (Urano e Gaia), figlia di ciò di cui possiamo avere esperienza, dei confini celesti e terrestri della nostra esistenza.
Voci, visioni… Concrezioni stratificate nella memoria, costruzioni che si dispongono in nuove forme nell’offrirsi disappropriate a una nuova vita.
Capita che chi scrive versi dimentichi di esercitare lo stesso mestiere di Dante o di Shakespeare, di comporre nella lingua di Montale, di Rilke, di Eliot… Capita a molti di recidere e dimenticare, ma capita soprattutto a coloro che, confondendo plauso con ossequio, si pavoneggiano davanti a uno dei tanti specchi disseminati da Narciso.
L’oscurità si è rintanata in soffitta e la falsificazione, assumendone le sembianze, ne ha occupato abusivamente la casa.
Quel gergo che suona come una moneta falsa… Pochissimi hanno il dono, la parola che sorprende.
Potenza, respiro, verità… I giovani cercano consapevolmente ciò che possono trovare inconsapevolmente nella poesia. Ma le luci della ribalta sono spesso ingannevoli: accecano celando l’insignificanza, l’inautenticità.
Attingere dal profondo, con parole rinnovate, la precisione che insiste sui dettagli è una delle vie segrete che porta le cose grandi a sconfinare nelle piccole, le piccole nelle grandi.



La sua poesia ci dice

da Abitare l’attesa

Paesaggio

C’era il mare, la stessa idea del mare
e quella striscia bruciante di neve
scesa fino agli aranceti
contro un cielo senza colore
sul lato a nord della casa, sul nero
sottocosta dove solo un luccichío
al largo di lampare
disegnava un’ansa tra le montagne
incurvate, una città…
Che poi era tutto un salire tra gli orti
e le vigne di voci sui muri arrotondati,
un passaggio sull’erba appena spuntata
tra gli arbusti rasi ad altezza d’uomo.

C’era il mare, la stessa idea del mare
e una vena verde di serpentino
dietro il tremitio dei vetri
contro un cielo senza colore,
un blocco non ancóra frantumato
sull’asfalto sotto la luce dura
dei proiettori. Laggiù oltre le sbarre
semoventi di un cancello
ora la notte non fa più paura.
Ha i contorni degli agglomerati
sull’arenile, il rialzo del cemento,
il respiro che inghiotte il buio
di un albergo desolato.

*
da L’oscuro di ogni sostanza

Dublin

Nell’ultimo più veloce giro
di campo quel ragazzo solo,
sfinito oltre la mèta
quando al Trinity inseguivi
un frisbee in virata
tra i rami densi di un castagno
o il sibilo vuoto di un’acqua
un poco più lontana.
Così soli quella sera
noi due insieme,
la città in un rettangolo scuro.
Lenta la Liffey a piccole vele
sotto l’arco di un ponte sospeso.
Così soli quella sera
nel transitare inerte
dei bastimenti, come se niente
dovesse più accadere.

*
da Ritratto di donna al mare con bambino

In autostrada verso Ponente

Scogli corrosi dalla salsedine,
sminuzzati dai marosi, brandelli
di materia impercettibile.
Senza peso anche la memoria
nello squilibrio del cielo
a perpendicolo sul parabrezza,
sopra le grate scure e le barriere
che frangono il rombo dei motori,
l’argento del mare.
Una curva cieca, un viadotto,
luci spente in galleria.
Sbanda un’automobile allo scatto
lampeggiante di un semaforo.

Mio figlio ascolta i Beatles,
chiede di Lennon e McCartney.
Estrae un CD dal lettore,
dall’involucro di plastica
la cover del CD. Mi guarda.
Ha quasi undici anni.
Area Servizio Aurelia Sud.
Reticoli sbriciolati tra cumuli
di bitume e asfalto.
La frontiera è lontana.
Un traliccio a barre verticali
vacilla sul tetto di un palazzo.
Savona Sanremo Ventimiglia.
A ottocento metri di polveri sottili
le guglie bianche e vermiglie
di una centrale a carbone.

Non basterebbero, sai,
le fatiche di Ercole, questa
raffica rabbiosa di vento
per liberarci da noi,
dalle rovine che sono in noi.

Signora di ogni sera che declina
avvolgi i nostri sensi spirituali,
le parole dei supplici,
quel giorno che non viene
in cui rinasce la vita

Dicono di lui e della sua poesia

Massimo Morasso, Una fisiognomica d’ambiente dalla recensione a L’ombra che intorno riunisce le cose, in “La mosca di Milano”, n. 20.
Ci sono autori, nei quali la parola porta con sé le tracce del suo sposalizio con un genius loci imprescindibile. È ben vero che l’impronta di un paesaggio locale può diventare viatico stilistico, cifra di riconoscibilità, e, nei migliori, perfino stimmate di un’avvenuta visione. In quest’ultimo libro di Francesco Macciò i volti dei microcosmi torrigliesi o della Val Trebbia non sono soltanto apparenze sensibili. Qui l’aspetto delle cose è una realtà interiore. Qui, nel cerchio emblematico di quel medesimo, scontroso entroterra ligure cantato a suo tempo – ellitticamente, mirabilmente – dal “foresto” Caproni, l’aspetto delle cose è il risultato di un’operazione ermeneutica di interlocuzione dell’io con il paesaggio. Libro assai complesso e articolato, questo L’ombra che intorno riunisce le cose, diviso in nove sezioni di diversa lunghezza e ambizione: contenitori di una topografia, o per
meglio dire di una fisiognomica d’ambiente tracciata con sicurezza da un compasso mentale capace di intersecare i piani del suo discorso – e di restituire, vive, sulla pagina immagini eccentriche e iperboliche (che so, «l’inceppo nell’occhio millimetrico/ di Crono» in A una conosciuta) quanto, a volte, le linee di un cerchio perfetto in cui il sentire memore ha aperto le vie del cuore spingendolo verso i suoi giusti, “inevitabili” correlativi poetici (e questo, sia sul versante autobiografico-sentimentale, come, per esempio, nell’intenso miniciclo dedicato alla memoria del padre, sia sul versante più oggettivo-impersonale, come, esemplarmente, nella serie degli ink tablets, quasi a fondo libro). Francesco Macciò non è un poeta-narciso. Tutt’altro che auto-centrato, il mondo esterno gli si offre con nettezza inebriante, quasi ingombrante. Così le fronde oblique dei pioppi, l’odore del fieno e il tavolo buio del bar fanno parte della nostra stessa esperienza umana, e le case del villaggio abbandonato di Tecosa e il monte Antola transustanziato / celtizzato in monte di Bormano ci parlano non tanto, o non solo, dell’uomo Macciò e dei suoi casi, quanto della nostra filogenesi, ci aprono alla dimensione dell’ancestrale comune che alberga in noi […]

Luigi Surdich, La contraddizione, la distinzione, le parole, dalla prefazione a L’oscuro di ogni sostanza
[…] Quella che ho definito come dinamica di contrasti è il sostrato su cui poggia l’«oscuro di ogni sostanza», ad accostare il quale non infrequente è il ricorso alla folgorazione ellittica di alcune immagini risolutive. Si isoleranno allora alcuni versi ad alta concentrazione. Ne è testimonianza, ad esempio, la seguente quartina iniziale, che conduce alla soglia dell’azzeramento umano e vitale: «Ad attenderlo un poco sulla riva / scorrerà imbalsamato / il mondo nostro di cose dissolte / e ricucite a pezzi» […]
A sostenere lo scorrimento espressivo viene coinvolta non tanto la metrica quanto la sintassi, con predominio dello stile nominale quale opportuna scelta per un traghettamento dall’immagine esterna, dalla “figura”, alla sua assunzione come problema o rovello su cui indugiare: compete a una scelta di stile il movimento per il quale il sensibile si orienta verso il concettuale, senza che il passaggio sia rimarcato da nervature esposte e da visibili cesure […].
Là dove l’iniziativa poetica si fa più personalizzata, con riscontri mutuati dall’esperienza e collocati nella oggettiva nominazione toponomastica, le categorie universali fanno sentire il loro più intenso respiro: a ribadire la persuasione che, comunque lo si declini e comunque lo si orienti (nel lampo memoriale, nella vigilanza del fenomenico, nella dinamica degli affetti, nella problematicità rinserrata entro l’«oscuro di ogni sostanza») è il materiale dell’esistenza, è il nutrimento dell’esperienza a porsi a fondamento della poesia e a legittimarne la necessità.

Marco Ercolani, Francesco Macciò, l’oscuro di ogni sostanza da Marco Ercolani, Fuochi complici
[…] Il poeta parla di qualcosa che sempre gli sfugge. La sua poesia, come uno strumento musicale mai accordato su una sola nota, si espone, soffre, ansima, desidera, è labile, intrepida, rocciosa.
Cerca e poi trova la sua cifra specifica, la sua chiave insostituibile di lettura del mondo. Lostilus – incidere la propria esperienza nelle parole – è la forza interna della poesia di Macciò, che in questo ultimo libro perviene a uno dei suoi risultati più alti. Le parole si intrecciano tra di loro, consentendosi libertà analogiche e strutturali. Il poeta le sceglie, le dispone, le combina. Organizza un contrappunto, un controtempo. Attraverso questo contrappunto la poesia è quella pausa, come direbbe Hölderlin, “fra pathos e precisione”. Una pausa dove, se la materia verbale è visionaria, esige un’eccezionale chiarezza compositiva; dove, se la materia verbale è razionale, esige una particolare densità della sintassi. La costruzione è quella di una lingua esatta, che domina la sua intima malinconia.

Una doppia cornice di parole,
un intralcio di materia,
una ferita, una lama
che volteggia e colpisce.
Essere per sempre così
tra un declino e una crescita,
essere nuvole, fiori, l’oscuro
sfiorire di ogni cosa.

In Macciò l’esperienza umana, affettiva, speculativa, è “radiante”, continua a plasmarsi nella lingua e a plasmare la lingua. «Ciò che accade va disfacendosi / ma afferra le cose passate, / le scioglie in una luce cieca / le riplasma in un altro movimento. / Come queste parole taciute, / invetriate, questi passi / bloccati sullo stesso sentiero. / Come il silenzio che ci unisce / e si scompone in noi nell’ora / immobile in un altro tempo». Quando la poesia si addentra verso l’universo delle cose tentandone una trascrizione, l’oggetto corteggiato dalla parola, invece di mostrarsi di più, si mostra di meno, e ogni ulteriore descrizione, anche la più dettagliata, lo avvolge in una nebbia che sembra dissolverlo. Le parole che avrebbero dovuto arricchire la percezione la disorientano, aggiungono imprevedibili chiaroscuri alla cosa evocata, accrescono paradossalmente l’ombra, dissolvendone i contorni. Questo paesaggio, che è dentro la foschia ma fuori dalla foschia, Macciò lo osserva con classica compostezza: «Metro dopo metro si addentra / il sentiero, si frammenta / nel grumo di un bosco. / Un ingorgo d’acqua. Niente altro. / Un bagliore d’acciaio che intacca / le pupille: uno specchio, una lama. / Solo questo rumore bianco, / questa fissazione di un movimento». Nonostante l’evidenza di una parola poetica che incide sul foglio le forme della sensazione, l’effetto che ne risulta è un vuoto profondo, che la poesia sa contenere nella sua saldezza – una frattura che, nella pienezza della voce, si mostra nuda e reale. Il poeta è portatore di una visione del mondo che non coincide con nessun’altra prima, che sovverte le percezioni altrui, passate e future, per ri-accoglierle trasfigurate. La parola di chi sta per ammutolire non si consegna a nessuno: articola il linguaggio come se lo scoprisse per la prima volta, insolente e nuovo, cristallino e imperfetto. Andando verso una strada non vista, il poeta sa farci sentire ogni oggetto che nomina come se lo toccassimo nel buio, come se leggendo lo illuminassimo, come se da ciechi tornassimo vedenti attraverso la parola. La sua parola non la pensano né i vivi né i morti: resta impensabile […]

Daniela Bisagno, Da un’oscurità svelante. Sulla poesia di Francesco Macciò in “Atelier” n. 113, marzo 2024
[…] Abitare l’attesa, il titolo della terza raccolta di Macciò, indica, con la chiarezza perentoria propria di certi titoli, un programma che è prima di tutto una strategia poetica o, per dir meglio, un destino che, non potendo sfuggirgli, è quasi giocoforza accettare. Ciò che, nella prima raccolta, era scoperta immatura e inquieta, ancora, comprensibilmente, segnata dalle intermittenze dello stupore, ora si è tramutato in piena acquisizione. Lo attesta, prima di tutto, il linguaggio – sismografo sensibile dei movimenti tellurici più impercettibili sotto la soglia della coscienza – che finisce col perdere in termini di altezza, incandescenza, fervore, ciò che acquisisce in termini di semplicità, profondità, incisività. Ora, le ambientazioni boschive, selvatiche, teatro ideale per le scorribande di epifanie mitiche, come la Diana crudele e il celtico dio Bormano, o gli anfratti selvaggi còrsi disseminati di insidie della prima raccolta, lasciano spazio a scenari in cui la ferialità subentra all’eccezionalità (anche se ciò non impedisce qualche incursione sporadica nei territori del mito, come in A filo sull’acqua). Si pensi ai luoghi cittadini del vissuto quotidiano – la Genova vista da diverse prospettive e angolazioni: da lontano (Verso Genova, sull’autostrada) e da vicino (Vico degli Indoratori, Lungomare, Alla stazione di Nervi) –, o agli interni domestici, resi con dovizia di particolari, «dettagli precisi, mai superflui o leziosi, bensì vividi e vitali», come in Rifrazioni. O in quel testo svelante, Sovrapposizioni, anch’esso incluso nella seconda parte del libro, D’acqua, dove la casa, «luogo di cura e di mistero», è soprattutto uno spazio la cui prerogativa di intérieur domestico, investito delle funzioni tutelari che lo assimilano a un asilo protetto o a un nido, non lo mettono al riparo dalle intrusioni di forze estranee, destabilizzanti […].

Giuseppe Conte, nota di lettura a Ritratto di donna al mare con bambino
Ritratto di donna al mare con bambino è un ottimo libro, che contiene memoria quotidiana, infanzia, maturità, dolcezza, malinconia, mito sin dalla prima sezione che dà il titolo al libro, con quel declinarsi fuori del tempo, di un tempo preciso, con oggetti che lo connotano, l’alberghetto, la sabbia, il pitosforo, il juke-box, la Millecento caffellatte, davvero struggente. Mi sono segnato poi dei titoli e dei momenti prediletti: Canzoncina di Natale, Variazioni sui corpi e su una rosa, in un’aura borgesiana, le iterazioni quasi rituali di La voce, i Dialoghi con il padre, tema che immagini quanto mi tocchi, la nobile eticità del discorso Ai cittadini di Genova, che racchiude una bellissima definizione di poesia: «Nasce sempre intorno al fuoco / la poesia: è compassione, ribellione, / è nel vento e nel silenzio». Perfetta. Belle le tue geografie, In autostrada verso Ponente contiene un endecasillabo bellissimo: «Signora di ogni sera che declina»… E poi Una forza mutilante è l’amore, e infine la filastrocca deliziosa Uno alla Luna che introduce l’esercizio di Numerologia che mi ha incantato per la sua profondità ma anche per la sua larga, orizzontale presa metaforica. Un libro ricchissimo […]

Francesco Macciò e i suoi poeti

Direi che più che i poeti amo la poesia, quella che smuove, sovverte, risuona e lascia traccia nella memoria. In tal senso, il secolo che abbiamo alle spalle, con Gozzano, Ungaretti, Saba, Montale, Caproni, Luzi, Sereni, è stato uno dei più ricchi della nostra storia letteraria, mentre oggi, in una sconcertante e depistante proliferazione del para-pseudo-poetico, fatichiamo a incontrare la Poesia Poesia, per dirla con Sbarbaro, anche perché sono venuti meno i filtri della critica e quelli approntati dalle grandi case editrici si rivelano in molti casi taroccati o fuori uso. Non che non ci siano bravi autori e brave autrici, capaci di alzare il tiro, di commuoverci, e non è poco, ma non hanno la visibilità che meriterebbero e spesso, sulle strade più battute, incappiamo in testi ripiegati su se stessi, schiacciati in una sfera personale che non comunica e non decolla. Per non dire poi dei Maîtres dans l’art d’expérimenter (evito la marcatura di genere che risulterebbe offensiva), che elaborano indelibabili pozioni, pur delibate da sedicenti Maîtres de la dégustation. Ecco, in me lascia e ha lasciato un segno la poesia che, nonostante la sua necessaria sostanza ermetica, come la voleva Ungaretti, mi rende partecipe, punta in alto, mi mette in cammino, senza deragliare nella prosa o nella sciatteria: una poesia che mi sorprende e ci comprende.


In dono a Francesco e ai lettori di Il Tasto Giallo, di Umberto Saba da Il Canzoniere, Ultime cose 1935-1943, Il vetro rotto

Tutto si muove contro te. Il maltempo,
le luci che si spengono, la vecchia
casa scossa a una raffica e a te cara
per il male sofferto, le speranze
deluse, qualche bene in lei goduto.
Ti pare il sopravvivere un rifiuto
d’obbedienza alle cose.
E nello schianto
del vetro alla finestra è la condanna.


Francesco Macciò, vive a Genova, dove ha insegnato italiano e latino al liceo.
Opere recenti: saggistica: L’universo in periferia. S-Oggetti sparsi intorno alla Poesia, prefazione di M. Ercolani (Moretti&Vitali, 2023); narrativa: L’alba e la cenere (Robin Edizioni, 2025); poesia: Ritratto di donna al mare con bambino, Note critiche di G. Conte, F. Pusterla, D. Conrieri (Puntoacapo, 2025).
Libri di poesia: Sotto notti altissime di stelle, prefazione di L. Surdich e M. Servetti (Agorà, 2003 / Matisklo, 2013), L’ombra che intorno riunisce le cose (Manni, 2008), Abitare l’attesa, prefazione di G. Fantato (La Vita Felice, 2011), Giglio di mare, con tempera di A. Borioli (Robot adorabile, 2013); L’oscuro di ogni sostanza, prefazione di L. Surdich (La Vita Felice, 2017), Viața ca pământul / La vita come la terra (Editura Cosmopoli, 2023). Le sue poesie sono state tradotte in francese, rumeno, inglese, tedesco, spagnolo, cinese.
Ha pubblicato sotto lo pseudonimo di Giacomo di Witzell il romanzo Come dentro la notte (Manni, 2006): “il notevolissimo merito di Come dentro la notte è la reinvenzione del genere narrativo, tanto usurato soprattutto negli ultimi tempi” (Giorgio Bárberi Squarotti); ha curato il volume di studi su Giorgio Caproni intitolato “Queste nostre zone montane”, prefazione di G. Giudici (La Quercia Edizioni, 1995).
Sta lavorando a una nuova traduzione delle Odi di Orazio, Ha ideato e conduce la rassegna Incontri con gli scrittori presso il liceo Sandro Pertini di Genova.


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