RITRATTO DI DONNA AL MARE CON BAMBINO è la recente silloge di Francesco Macciò edita da puntoacapo editrice (2025) con note di Giuseppe Conte, Fabio Pusterla e Davide Conrieri. La raccolta è copiosa e si propone come un corpo stratificato: un movimento che alterna prossimità e distanza, memoria e percezione, autobiografia e senso di vertigine (simbolica). Colpisce, fin da subito, la sua tessitura con numerose sezioni comunicanti fra loro che non seguono una linearità tematica, ma un andirivieni di voci, ritorni e fratture. L’intero libro è attraversato da un sentimento di sproporzione – tra ciò che vediamo e ciò che resta nascosto, tra la vita e il suo resto, tra l’infanzia e la fine – che diventa la cifra più intima del suo dire poetico.

La prima sezione – Ritratto di donna al mare con bambino – è un vero incipit visivo che introduce una poetica dello sguardo, ricorrente nel libro. L’immagine della donna col bambino non è idillio, ma materia inquieta, attraversata da tempo, voce, vento, memoria. Le poesie procedono per brevi quadri, come lampi di una pellicola che si riavvolge: la madre, il mare, le case, la terra che “ruota”, una bambina che “conta i secondi”, il Tempo che “è sempre più tardi”. La voce poetica si misura con i propri limiti, con un orizzonte che attrae e nel contempo resiste; il lettore percepisce una tensione continua tra il dire e il non dire, tra il gesto e la sua ombra.
In – Riquadri in chiaroscuro – si apre la sezione della memoria domestica, familiare e territoriale. Macciò scolpisce qui un linguaggio che alterna luce e ombra, dettaglio e dissolvenza. “Notizie da Volterra”, “Giglio di mare”, “A mia figlia”, “Menton-poème”: sono pagine che ritagliano frammenti di vita come fotografie corrosive, attraversate da uno sguardo che non si limita a ricordare, ma riporta in vita la vibrazione di un luogo, la sua voce, l’odore della pietra o del vento. I versi sulla madre – “mio padre, mia madre, un accendino giallo… un re senza corona, una regina senza testa” – mostrano la capacità dell’autore di condensare in un gesto minimo un’intera genealogia emotiva.
Nella terza – Dialoghi con il padre – entra in scena la voce del lutto. Le poesie rivolte al padre non sono elegie tradizionali, ma monologhi spezzati, ritornanti, fissati su particolari minimi: la curva “troppo alta”, la Sopralevata, le cifre su un biglietto. Sono elementi che, come oggetti d’archivio, fanno emergere la densità affettiva del non detto. La morte del padre è affrontata non con pathos, ma con una limpidezza che ferisce: “Ti eri fermato sulla Sopraelevata” “Mi porto sulle spalle il peso di quello che sono”. È una sezione breve e incisiva, che scava nella topografia degli affetti.
Si giunge a – Rapsodie in principio di voce – dove due testi (Sul finire di settembre, In treno verso Milano) aprono uno spazio diverso: una soglia di transizione, un viaggio quasi fisico dentro la metamorfosi della voce poetica. Sono poesie di movimento, dove il paesaggio diventa specchio interiore. Non c’è più solo memoria, ma una tensione verso la forma stessa del dire. Le poesie su Genova e sul ritorno delle Grazie non appartengono forse a una sezione precisa: funzionano come cerniera civile, come un intermezzo che apre all’esterno. Qui Macciò osserva la città ferita, il paesaggio trasformato dalla violenza dell’acqua o dalla velocità dell’autostrada. Sono testi che spostano l’asse dalla biografia al corale, dalla casa al mondo.
La quinta parte – Nel cristallo di questa stanza – è una delle sezioni più intense. Il tema centrale è il luogo della risonanza, della memoria rifratta, del dialogo con figure femminili e archetipiche (la madre, Euridice). “Tenda cinese”, “Parole di Euridice”, “Due movimenti”: tutto è attraversato da specchi, riflessi, variazioni di luce che piegano la percezione. La stanza diventa un cristallo, un prisma in cui l’io parla, si sdoppia, si perde, ritorna in forme impreviste. Sono testi che interrogano la presenza, la sua consistenza, il suo fantasma.
In – Velocità – la poesia accelera, si fa più concettuale, quasi fisica. La velocità è tempo che cambia stato: la velocità dei corpi, del pensiero, dell’amore, della fuga. Bellissima la poesia sulla velocità di fuga: “la velocità minima iniziale per muoversi da un campo di forze… e potersi allontanare”. La sezione oscilla tra scienza, mito e autobiografia: una meditazione sul tempo come variazione, sulla percezione dell’attimo quando diventa materia elastica o ferita.
Autunnale – una sezione di forte resa visiva: licheni, argini, castagne, vento, foglie che cadono. È un’autunno non solo stagionale: è ricaduta, decomposizione, esito. La madre ritorna come voce, come richiamo, come resto — una presenza che non smette di segnare il paesaggio. Qui Macciò raggiunge alcune delle immagini più essenziali: “Si muore nel riflesso di infiniti nuovi occhi di vetro”. L’autunno è anche il luogo dell’agnizione: del vedere troppo, dell’essere visti da ciò che muore.
Ne – Il mondo tra parentesi – l’espressione è esatta: qui il mondo viene messo “tra parentesi”, cioè sospeso. La sezione alterna un registro più narrativo (“Sfoglia le pagine del calendario…”) a versi di grande densità simbolica (“Ecco nel bianco delle lenzuola l’occhio tumefatto di un cane…”). Il tema è la malattia del tempo: chi confonde i giorni, chi nomina se stesso, chi tenta di trattenere ciò che inevitabilmente scivola via. La parentesi è una forma di protezione, ma anche un limite.
L’ultima sezione – Numerologia – è una sorta di tassonomia simbolica del mondo: Uno, Due, Tre, Quattro, Cinque, Sei, Sette… Macciò non descrive, ma enumera, come se tentasse di ricostruire l’ordine perduto del reale attraverso sequenze, liste, archetipi. È una sezione che, pur nella sua apparente astrazione, ricapitola tutto ciò che precede: il cosmo, l’infanzia, il dolore, la forma dell’amore, il ritmo, il numero. È la cristallizzazione finale del libro: non una conclusione narrativa, ma una mappa.
“Ritratto di donna al mare con bambino” è un libro che procede per affondi e risalite, come un respiro a più polmoni. Macciò costruisce un atlante della memoria: personale e collettiva, domestica e cosmica, terrena e simbolica. Ogni sezione apre un varco, ogni immagine coincide con una soglia. La silloge è attraversata da una domanda fondativa: come si conserva ciò che amiamo? Il poeta risponde senza scorciatoie: si conserva per frantumi, per ritorni, per accumulo di dettagli che sembrano minimi, ma custodiscono l’essenza di una vita. La poesia diventa così luogo di risonanza del tempo, un luogo dove la madre, il padre, l’infanzia, la città, il cosmo possono ancora coesistere. Un libro complesso ma limpido, stratificato, ma leggibilissimo dove ogni immagine trova il suo contrappunto in un’altra e dove la parola — pur nella sua fragilità — continua a cercare ciò che ancora può essere salvato.

Nota di lettura a cura di Antonio Corona.


Estratti da RITRATTO DI DONNA AL MARE CON BAMBINO


Gira sempre lo stesso disco
e il jukebox non si ferma
intorno ai resti di un’estate
in piedi dietro il banco a servire
sigarette e sale, trinciato e cartine.

Ma ora dietro le lenti scure
nel rincorrersi pigro delle voci
il volto è disteso al sole
quieto di settembre, le gambe
sulla sdraio ora sono a riposo.

Dentro il secchiello verde
c’è il salvagente da gonfiare.
Li buttano in acqua i bambini
dove non si vede il fondo
perché imparino a nuotare.

*

Nella penombra un velo sugli occhi,
ritaglio lattiginoso di un volto
che tu solo potevi vedere.
È serena ora Virginia
ritrovato il suo bambino
così consumato e bello, dolori
dappertutto, trentatré giorni
di espiazione sulla terra,
quando invocavi il dio del Calvario,
il dio figlio inchiodato alla croce
per ricongiungersi a chi, così solo,
lo aveva abbandonato.

Quel dio di presagi, arca di spine
nel nostro tempo gramo.
Quel tutto nel niente che siamo,
padre, del suo amore invisibile.

*

III

Ora che l’alba
è già nel grigiorame della sera,
ora che anche la terra si deforma
in una crosta molle,
parla ora
a squarciagola
ora che non hai più voce,
che cresce nel buio come la notte
la nostra smisurata paura.

*

Sei

L’enfasi
La bellezza
La contraddizione
Il sonno
L’incompiutezza
La compassione
L’armonia
L’imperfezione
L’immagine riflessa
La ripetizione
Le facce del dado
Le porte di Milano


Francesco Macciò è nato a Torriglia e vive a Genova. Ha curato il volume di studi su Giorgio Caproni Queste nostre zone montane, introduzione di Giovanni Giudici (La Quercia Edizioni, 1995). Ha pubblicato il volume di saggistica L’universo in periferia. S-Oggetti sparsi intorno alla Poesia, prefazione di Marco Ercolani (Moretti&Vitali, 2023) e, sotto lo pseudonimo di Giacomo di Witzell, il romanzo Come dentro la notte (Manni, 2006).
Libri di poesia: Sotto notti altissime di stelle, prefazione di Luigi Surdich, (Matisklo, 2013), introduzione di Mirko Servetti; L’ombra che intorno riunisce le cose, (Manni, 2008); Abitare l’attesa, prefazione di Gabriela Fantato (La Vita Felice, 2011) (finalista Premio Volterra Ultima Frontiera 2012, finalista Premio Internazionale Mario Luzi 2014-2015); Giglio di mare, tempera di A. Borioli (Il Robot Adorabile, 2013); L’oscuro di ogni sostanza, prefazione di Luigi Surdich, (La Vita Felice, 2017) (finalista con menzione di merito Premio Guido Gozzano); Viața ca pământul / La vita come la terra, (Editura Cosmopoli, 2023).

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