a cura di Rosanna Frattaruolo
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La campana della chiesa di Rovittello
batte, sbatte, sbatacchia,
noi a gran velocità oltrepassiamo il din-don domenicale;
sono momenti di frustrazione,
la frusta scortica il costato,
le parole si aggrappano alle viti – già sanguinolenti –
la stazione della circumetnea – frastagliata d’ocra –
si specchia nel cuore della zagara,
amara è quest’oggi la risoluzione.
Una segnaletica triangolare,
con la coda a destra,
ci avverte della direzione da evitare,
mentre noi ci divertiamo a zigzagare tra i punti cardinali.
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Pasolini e Maria Callas fuggiaschi a Patmos
(esiliati al pari del Santo Giovanni)
per un istante di pura estasi e di sfinita follia,
seppelliti tra l’enumerazione di alcune vittime illustri
e le dichiarazioni del Presidente Saragat.
Può essere accaduto di maggio o di inizio giugno
ma nessuno dice con certezza dell’accaduto,
appena il tempo per dimostrare l’antitesi
– ancor più della tesi –
né a Casarsa né a Chania si sono rotti i vasi,
nessun sangue, nessuno ha spettegolato su un amore fatuo,
tutto è rimasto abortito dietro una pellicola.
Qualcuno ha giurato di averlo scorto un bacio,
dietro una cascina calcinata, tra le fogne oscure.
*
Sotto l’alberello del limone giungeva lo Spirito santo,
beccava in fragranza di reato due dodicenni,
la Città era terribilmente rossa – una stufa a gas era appena esplosa
e le fiamme avevano divorato il battistero antico.
Sorgevano fenici dalle ceneri e si depositavano sulle mani
delle streghe, altre streghe raccoglievano roselline,
Merlino galoppava una scopa impazzita,
il battistero brindava alla sua purificazione.
Un’allucinazione o un sogno o una predizione
della fine del mondo o semplicemente di questi nostri corpi decadenti,
niente più dell’innamoramento infantile
– quello che soffriva tanto più che poteva,
che pareva una questione di malaffare
o semplicemente il riflesso dell’amore ramingo di Dio.
*
Imperversarono quel giorno le maree,
Giovanni – il mozzo – non resistette alle advances
della ragazzetta della coperta,
dall’oblò si vedevano oramai poco chiaro
il rosso brunastro dei tetti, l’avorio dei campanili.
Le grida dalla cabina numero sedici
si innalzarono prepotentemente
ma la compagine era votata ad altro,
al dio perdente che si affacciava sul boccaporto,
allo Iettatore alla guida del timone.
Gli eglefini vennero fatti in due dal tagliamare,
divenne tutto un susseguirsi di sogni e morte,
il nostromo fece bene a scrostare dalla carena le stelle,
ad abbuffarsi di dolcetti funebri, a slabbrare nel mare merda.
Il tonfo fu assordante, l’Oceano – non più azzurrognolo da un po’–
si ricordò di una parata in mare di una notte qualsiasi del sud.
*
Un albero fosforescente dà frutti marci,
ti arrampichi fino in cima cercando quelli puri,
fatica inutile, in cima nascono sassi.
Sono figli del Diavolo,
ha provato con la spada a potare i rami il santo Fiacrio,
sono nati ancora sassi e poi stelle,
il contadino ha così imparato cosa vuol dire morir di fame.
D’un tratto un filare di mele gonfie,
una ripetizione indefinita, al contadino ritorna il sorriso,
ma è un filare di bombe.
Ne ha raccolto una il bambino Giuseppe,
è esplosa davanti agli occhi,
hanno raccattato due praline per i corvi.
*
La Morte attende ai piedi della linea ferroviaria,
qualcuno pensa a quel treno in arrivo,
ad un rovinare nel vuoto, ma è lì solo di passaggio,
domani i giornali non parleranno di una catastrofe.
I binari sono rosa in questo crepuscolo di giugno,
l’allegra ragazza è nella sua stanza si specchia e si liscia i capelli
pensando all'angelo che non arriva,
ogni tanto pensa anche ai ragazzi,
soprattutto a quelli matti come lei.
In questo caleidoscopio ci stanno dentro tutti,
tutte le disgrazie, ci stanno tutte le figure da dilapidare,
ci sta Cristo che non la smette di sanguinare,
e la mia voce divenuta grottesca oramai, viscerale il tanto che basta.
*
Verso i porti meridionali
va errando la compagine delle zingare,
con i loro seni di pietra si portano dietro un paese intero,
sono adesso lontane, cosa ne sarà di noi?
Cosa non ricordo – passato diviene presente –
le loro gonne al vento durante i baccanali,
i ferrosi polpacci sfavillavano, rilucevono le bovine gambe.
La miseria non attanagliava le bestie indomite
che portavano tra le chiesuole il profumo di Satana,
il parroco – travestito da santone – le battezzava,
si ricordano le grida e poi le risa
di queste incredibili Driadi senza più peccato.
I santi, racchiusi nei loro tabernacoli,
pregavano per l’anima delle disgraziate,
mentre noi, come sposi fedeli, le attendavamo sui gradini,
tra il demoniaco vocio del maestrale.
*
Vorrei poter parlare del bene e del male,
della Moltitudine che incendia le tempie
– là dove cuoce a fuoco lento il cervello,
là dove l’uomo, disumanato, tende le braccia al sepolcro.
Cosa dire del canto del cencioso
che a malapena stordisce i batacchi di una chiesa
e si sperde all’ingresso del paese
sovrastato dallo sferragliare del treno?
Tra le strade di Milano va pure peggio all’impiegatuccio,
con la valigetta in mano
– nel suono delirante dei tram –
si porta a spasso dodici ore di vita ordinaria,
una mediocrità consueta sfiorita all’ombra della sera,
e non sa mai chi ci sarà ad attenderlo nelle tenebre.
*
Tra Kafka e il riepilogo del conto bancario
non so cosa privilegiare:
evasione, girandola dei minuti-secondi,
alterazione della nuova fase amniotica,
predisposizione testamentaria all’Osceno.
Ma stasera gioca il Milan, farò a meno di tutte le carte,
un unico punto di osservazione, quello mio di sinistra,
da dove il calcio d’angolo si vede più chiaro,
da dove il goal – se arriva – ti dà il senso del trasalimento e basta.
*
Dalla nostra finestra non si vede il mare,
appena due palazzoni imperlati di calcinacci,
due panchine desolate e qualche ragazzetto o anziano a braccetto.
Non è il vento longitudinale a squarciare l’aria, a dilaniare l’Ora,
ma la salsedine che consuma le tempie al muratore.
Presto si farà baldoria, brindando nottetempo al nuovo ciclo primaverile
che porterà i colombi e le tortore a tubare tra la ressa, tra i passanti;
e in festa saranno anche quei due cuori che si sono fatti a pezzi in marzo.
Giuseppe Ligresti nato Taormina il 3/6/1980, si fa conoscere al pubblico con la prima raccolta Un cielo rivestito d’altre stelle edita da Rupe Mutevole Edizioni.
Con la stessa casa editrice pubblica: Dall’Invettiva all’Io e Attestati di Morte, mentre per Narrativa e Poesia Edizioni la silloge Ritagli antelucani. Raccoglierà – sforbiciando e rivisitando i testi – le tre sillogi precedenti in un unico volume (Trittico della crudeltà ), seguito dalla raccolta Canti dalla Valle di Giosafat.
Per Il Convivio Editore pubblica Perifrasi della caduta e Quasi come un epitaffio, infine con il glomeruolodisale Edizioni Divagazioni su un giorno qualunque.
Foto copertina di Dino Ignani





