L’ ARTE DI NON CREDERE A NULLA è l’opera di Raoul Schrott edita da Crocetti (2025). Ci sono libri che nascono da un’esperienza e libri che nascono da una finzione. L’arte di non credere a nulla appartiene alla seconda categoria: non perché sia meno vero – tutt’altro – ma perché costruisce la sua verità a partire da un’origine deliberatamente instabile. Raoul Schrott apre il volume con il ritrovamento di un manoscritto settecentesco conservato nella Biblioteca Classense di Ravenna, il Manuale dell’esistenza transitoria: un testo attribuito al primo ateo dichiarato dell’Europa moderna, Matthias Knutzen. È un documento che, per come viene raccontato, dovrebbe illuminare il rapporto tra precarietà e conoscenza, tra presenza e dissoluzione. Ma, a ben vedere, è un documento che probabilmente non esiste. Il Manuale funziona come una matrice invisibile dove Schrott finge di tradurre dal latino: ne recupera frammenti morali, intuizioni sulla natura effimera delle cose, osservazioni sulla caducità e sui limiti della percezione umana. Inventare un’origine è il modo più onesto per parlare dell’origine reale, che sfugge e non ci appartiene mai del tutto.

La precarietà dell’esistenza – dice il Manuale – non trova riscatto nella speranza né in una gloria futura, ma soltanto nell’attenzione al presente, nell’esposizione alle sue incrinature. Questo spostamento è decisivo: non c’è redenzione altrove, non c’è un al di là a cui demandare il senso. Tutto ciò che accade avviene qui, nel punto esatto in cui l’esperienza tocca il corpo. Schrott traduce questa postura in una poesia che attraversa mestieri, paesaggi, gesti minimi, oscillazioni del tempo. Ogni figura – la fotografa, la cassiera, il conducente d’autobus, l’operaio cantoniere, il viaggiatore, la coppia d’amanti, il parroco, la guardia carceraria – è colta nell’atto di essere al mondo: un “esserci” che non pretende monumentalità, ma che custodisce una propria irriducibile dignità. Queste vite ordinarie non vengono elevate a simbolo, né fissate in un’aura lirica. Sono vite che si muovono in avanti per inerzia, o per necessità, o per abitudine. Il loro valore sta proprio nella loro fragilità: nel fatto che ogni gesto è esposto all’imprevedibile.
I versi sembrano procedere per frammenti, per accumulo, per rapidi movimenti laterali. A volte si ripetono, altre volte si intrecciano in strofe successive, e poi si dissolvono. Il ritmo nasce da una rima interna, la lingua è asciutta e insieme risonante: Schrott recupera la materialità della parola, la porta dentro il paesaggio, dentro la carne, dentro il lavoro quotidiano. Il risultato è una scrittura che non organizza il senso: lo lascia emergere come figura. È qui che si crea una sorta di mosaico che diventa poetica: ogni componimento è un frammento autosufficiente, ma anche parte di un disegno più ampio che si lascia intuire senza però mai mostrarsi per intero.
Una delle idee più forti del libro è dichiarata esplicitamente: “Crediamo di vivere il tempo: ma questo è sbagliato. Ognuno vive solo istanti.” Il poeta smonta il tempo narrativo e lo ricompone come sequenza di attimi isolati che non si succedono realmente, ma che si accendono l’uno dentro l’altro come lampi di percezione. Questa concezione attraversa un po’ tutte le poesie. Nei mestieri, nei paesaggi, nelle relazioni, nei viaggi, persino negli atti religiosi: tutto viene ridotto al minuto gesto che lo costituisce, al respiro che lo contiene, alla sua essenziale incompletezza. L’esistenza non si estende: si misura in ciò che accade. Esiste poi, secondo l’autore, “un’arte dell’incertezza” che la quarta di copertina mette in scena: “La vera arte è restare incerti – capaci di mantenere contemporaneamente due idee contraddittorie nella mente.” In questo caso potrebbe essere proprio la poesia a diventare quindi il luogo in cui sopportare questa contraddizione? Il libro culmina in una frase che sembra un sigillo, o forse una negazione: “l’assoluto opera nel nulla”. E subito dopo, quattro pagine bianche. Il silenzio non è solo un espediente tipografico: è un gesto concettuale. Schrott ribadisce che l’assoluto – qualsiasi cosa immaginiamo con questo nome – non interviene nel mondo se non attraverso la sua assenza. È il nulla che permette alla forma di apparire, è il vuoto che rende visibile il movimento, è lo spazio bianco che dà risalto al frammento. Quelle pagine vuote lasciano il lettore nella stessa condizione dei personaggi che attraversano le poesie – esposti, vulnerabili, sospesi.
In conclusione –L’arte di non credere a nulla – è un libro che “finge” per dire la verità. Schrott ci consegna un mondo fatto di tasselli, di instanti, di figure in bilico: una realtà priva di fondamento, ma non priva di bellezza. La grandezza non sta nel successo, né nella visione di una gloria futura, ma nel gesto di chi continua a guardare – pur sapendo che ogni cosa è transitoria. La poesia, allora, ci ricorda che credere a nulla non è una forma di negazione, ma una forma più esigente di attenzione.

Nota di lettura a cura di Antonio Corona.


Estratti da L’ ARTE DI NON CREDERE A NULLA

quando indaghiamo sulla sostanza del mondo assumiamo
che la materia sia semplice e immobile· tuttavia non
sappiamo cosa sia la materia – sappiamo solo come
essa interagisca con altra materia· qual è l’essenza di un
uccello? di una pietra? non lo sappiamo: sappiamo solo
di particelle minuscole · atomi – e che essi costituiscono
il vero enigma XIII.1



l’ornitologa

osservare lo sparviero e aspettare che mi dimentichi
diventare invisibile per far crescere in me un altro io
mi fissa · si accovaccia all’ombra · rigurgita borre
prima di conficcare il suo becco nel corpo · cava le budella
lui è oltre · brusco · tutto ciò che di te ti spaventa
risplende nel suo dispiegato piumaggio
mi tollera · m’aspetta con questo arancione attorno alla
pupilla
conficca in me i suoi artigli come in una colomba
anziché sottomettersi preferisce morire
è la forma di ciò che credo di aver spinto nel buio
covando furibondo · tignoso · una volontà che piomba
dall’aria per poi scuotere le ali e sparire
oltre le siepi in una crepa nel cielo; chiaro-remota· simile
a foglia d’oro che s’immerge nell’acqua · non c’è anima
nella natura
allo stato brado lei si corrode· solo noi ci crediamo amorevoli

6 XI 14



il filosofo

non è forse ogni domanda una formulazione del desiderio
e ogni risposta una perdita –
la realizzazione di una felicità sempre fuori portata?
a prescindere da quale premessa io elabori
rimane uno sforzo che non porta da nessuna parte
anche nel giorno più lungo la vita è troppo breve
per questo sembriamo quasi troppo giovani
eppure impietriti davanti a qualsiasi cambiamento
la montagna tace · non fa nemmeno finta d’essere impassibile
sta semplicemente lì – roccia che riposa nella sua caduta
il nibbio volteggiante nella risalita · prima rosso oro poi
bruno
è nel silenzio insulso
che il cielo annuncia la vicinanza tangibile dell’essere –
quarzo e gneiss · i loro luccichii nel grigiore
mondo come rappresentazione · e volontà
la quale si riversa nelle confusioni della nostra viltà:
ogni sofferenza risulta dalla credenza
che sia necessario difendersi dall’infelicità
piuttosto che trovare bellezza nel fallimento

nei prati s’inizierà presto a raccogliere la frutta di casco
e i rami alla finestra sono pieni di noci
bianchi all’interno i loro gangli ci anneriscono coi gusci
le mani: queste sono le corone
della creazione – e qui è dove viviamo

1 VIII 14



ci schiudiamo sul confine tra l’istante e lo spazio:
l’opportunità · viviamo nella consapevolezza di non avere
controllo su tutto e di non poter evitare gli attimi della
distruzione – in armonia con ciò che ci circonda: tutto
interagisce intorno a noi senza preoccuparsi di noi XIII.7


Raoul Schrott nato nel 1964, austriaco e cosmopolita, è uno degli scrittori di lingua tedesca più eclettici del nostro tempo. Poeta, romanziere, saggista, traduttore e studioso di letterature comparate, unisce nei suoi scritti saperi diversi, riuscendo a coniugare poesia e scienza, studio sulle origini della tradizione culturale europea e audace sperimentazione formale, storia universale e questione esistenziale. Ha studiato a Innsbruck, Norwich e Parigi – dove è divenuto segretario personale di Philippe Soupault – dedicando i suoi primi studi scientifici al dadaismo. Dopo il successo ottenuto col romanzo Finis Terrae. Ein Nachlass (Finis Terrae. Un lascito, 1995) si sono susseguite numerose altre prose, tra cui Tristan da Cunha oder Die Hälfte der Erde (Tristan da Cunha o La metà della Terra, 2003) e il recente Eine Geschichte des Windes (Una storia del vento, 2019). È autore di un poema epico intitolato Erste Erde (Prima Terra, 2016), in cui ripercorre la storia dell’Universo, dall’esplosione primordiale fino alla comparsa dell’essere umano.

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