“A4 – una pagina”
su La statua inesistenza di Serena Mansueto
(L’Arcolaio, 2024)

di Alfredo Rienzi



La statua inesistenza, edita nel 2024 da L’Arcolaio, è l’opera seconda di Serena Mansueto, dopo Travestimenti (Eretica, 2020). Ben chiara è l’importanza, nell’approcciarsi alla raccolta, di quanto l’autrice appunta nella Nota: «Reputo oltremodo irrilevante, e secondario, per il lettore, rintracciare elementi di autobiografismo nei versi di questo libro […] Ritengo perciò, cercando (e sperando) di evitare un’eccessiva intromissione nella diade lettore-poesia, che si possa migrare in un pensiero più ampio: verso l’universalità – irriflessa – della poesia», (p. 61). Come ben chiara spero sia la rilevanza di questa mia preliminare considerazione, proprio a fronte del motivo o della tematica o della vicenda della raccolta: tra gli svariati bivi e scelte che il percorso poietico e scritturale incontra (es.: chiarezza o velamento; presenza o nascondimento dell’io poetico; compattezza o pluralità delle occasioni; tradizione o innovazione ecc) quello che si palesa in prove come La statua inesistenza – che si snodano su un evidente percorso narrativo, scegliendone e illuminandone l’oggetto e costruendovi attorno, come vedremo, una precisa architettura – è il bivio nel quale non si decide di andare di qua o di là, ma che fatalmente orienta il poeta in virtù della qualità che la sua parola poetica riesce o non riesce ad indossare. Per dirlo con parole semplici, ben oltre la banalità, non è cosa si racconta che determina la riuscita di un’opera, ma come lo si fa. Così, riagganciandomi al possibile, ma irrilevante autobiografismo delle vicende vissute e riferite dall’io narrante, mi è occorso, in rapida e quasi contestuale successione, attraversare due considerazioni: la prima è che diverse sono state le raccolte di poesie, in questi ultimi tempi, relative ai temi della maternità, alle sue luci o più spesso alle sue ombre (e, ampliando, a vicende relazionali madre-figlio o figlio-genitore, a cronache di malattie, di morti, di abbandoni ecc); la seconda è che sia la esigente modalità architettonica, sia la capacità di componimento dei singoli testi e la cura dei versi e, in essi, dei sintagmi costitutivi, consegnano nelle mani del lettore un lavoro – La statua inesistenza – che unisce lo schietto ma governato pathos del narrato alla cura e alla bellezza del dettato.

La statua inesistenza
– titolo che accoglie in sé la sconnessione dei lemmi in una iunctura sostantivale che ricorda (e forse richiama) La tigre assenza di Cristina Campo – ci offre una acuta e delicata definizione dell’esperienza di maternità inconclusa che vive la protagonista. Non sembra un caso, vista così, che nell’accorto dispositivo epigrafico inciso nell’intreccio dei componimenti – insieme ai versi di Pozzi, Pavese (con il bellissimo «tu sei una terra / che nessuno ha mai detto») e Walcott – ci siano quelli di Cristina Campo: «Su acutissime lamine / in bianca maglia d’ortiche / ti insegnerò, mia anima / questo passo d’addio», (p. 46).

Il corpus delle poesie intreccia testi titolati interiore (numerati da 1 a 7, prevalenti nella parte iniziale), esteriore (da 1 a 25, che si infittiscono verso la fine) e, oltre un paio di cross (interiore-esteriore ed esteriore-interiore), altri rari, ma estremamente significativi passaggi: sogno (1 e 2), distacco placentare, distacco ombelicale e futuro superiore. I titoli, da soli, narrano già i fatti.
La lingua – in accordo col respiro interiore e esteriore – accoglie la nudità materica e biologica (ovulo, materia cellulare, utero, stato osseo, micro-organismi, polpa ecc) e la crudezza, algida e rovente, il “tuono calmo” di terapie, ambulatori, ospedali. Ma, senza strappi, senza apparenti dicotomie tra l’interiore e l’esteriore, sa farsi canto, pur nelle sue asprezze – canto intimo, sofferto e consapevole – e poi respiro lunare e cosmico, con un rincorrersi di versi e di accostamenti sintagmatici mai banali o forzati, che chiudono, aprono e fanno convergere gli orizzonti del micro e del macrocosmo. Cos’altro sono, se non l’unirsi degli universi, dell’attimo e dell’eterno, il concepimento, l’avvio della vita (e la vita tutta)?
«L’imprevisto è una bocca aperta sul dorso dei giorni»: lo spettro tonale esperito con notevole dominio della parola trascina il lettore nei punti più bassi e dolenti della storia («Ho scaricato te nel water»; «alitare una vita e trovare un segnale spento») e lo eleva in un alto, dilatato e non disperso sentire («cavare / il cielo dalla cosce del silenzio»; «si sta formando / lentamente / scolpisce due braccia due gambe una testa / lunare, il cordone celestiale / sotto l’ombra dei pini»; «come i rondoni non tocco mai le righe della terra / vivo nello stormo continuo / nell’increspatura di un grido»). Una poesia, questa di La statua inesistenza, nella quale la luce fioca della vita e il suo splendore – spento, alluso, irredimibile – convivono e si fanno esperienza, per quanto possibile, vicina.


Testi da La statua inesistenza


interiore n. 5

Si sta formando un lago
una grande memoria d’acqua. Cresce
con le domande cosmiche, insieme alle riflessioni
d’arrivo, le paludi dei timori

i micro-organismi lunari nell’addome
bevono odori ancestrali.

Hanno cercato il tuo alito su Marte
un corpo nudo, la piega nell’ombra.
Ho provato a dire loro qui è il mistero
tutti gli occhi adunati
nella coloritura del grembo.

(p. 24)



esteriore n.4

Ti ho dato il lato anfibio
il respiro aria-acqua al di là di un suono.

E poi ti ho presentato la confusione
il bagno nell’inquietudine
il corrimano instabile, la voce
ora è una belva digiuna e questo lato di tutto
e di niente vede la vivacità del soffio e tu
che tiri lento un legame, provi ad ammansire
le correnti dure della rabbia
ogni altalena d’umore con la stoffa del vento.

Quanto durerà il coraggio di alzare il peso
di una frase sporca di male?

                                            Sei l’eroe e il vinto.

Puoi esserne il padre accettando la nuova
altezza del disordine, godendo della parte
amorfa in una strada di congelato assenso.

Ma ogni spacco peserà aurore, tu le vedrai
                                           tra nove mesi.

(p. 25)



esteriore n. 14

Il tuo nome è impronunciabile
non ci sarai
nella composizione dell’alba, per la prima luce.

                         Ho perso una cosa mai detta.

Il male ha cominciato a prendersi l’aria
dal collo. La deglutizione è un colpo di vita
accade a me questa cosa accaduta.

Compongo il numero di mia madre, punto sono lì
mollusco di cenere, l’elevarsi della carrucola.

Mia madre, mio padre – allineati come due abeti –
stanno per conoscere una storia, per toccare
la statua inesistenza

(p. 44)



esteriore n. 21

Avrei voluto abbandonare questa nebbia
alla disperazione sopra gli ulivi, appenderci l’assenza
insieme alle canottiere dei contadini

mostrare come loro i capezzoli
              due bandiere di latte, chiamarle
              dire… sono state come le fontane

Ma in noi                  amore mio
rimane una risata paralizzata come la torta
in frigo e il festeggiato che non arriverà
a spegnere i suoi anni.

(p. 53)



esteriore n. 24

Rendila liscia, sotterranea, la colonna di fuoco,
il fianco del mondo attraversa le cose toccate

le voci raggruppate nel tuono, dentro la bolla
la sottrazione del corpo. Chiedono
le ragioni dell’assenza:

devo legittimare anche il segreto, il palpito
interrotto del mio alfabeto, quella cara oscurità.

(p. 56)


Serena Mansueto ha esordito nel 2020 con la raccolta Travestimenti (Eretica Edizioni). È stata inclusa nell’antologia della nuovissima poesia pugliese I cieli della Preistoria a cura di Antonio Bux (Marco Saya Edizioni, 2022). Suoi inediti sono stati pubblicati nel nono Almanacco dei poeti e della poesia contemporanea (Raffaelli Editore, 2022), nella rubrica La bottega della poesia di Repubblica-Bari a cura di Vittorino Curci, su Atelier Poesia Ultracontemporanea. È redattrice per Laboratori Poesia e scrive per lit-blog e riviste letterarie. Una prima stesura de La statua inesistenza ha vinto il 3° premio, come silloge inedita, alla XXIX edizione del Premio Renato Giorgi.

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