a cura di Rosanna Frattaruolo
Michele Trizio della poesia dice
Ho sempre vissuto nella convinzione che la poesia non sia un genere letterario tra gli altri, ma un movimento conoscitivo che supera la distinzione classica tra soggetto e mondo, un movimento in cui si fa esperienza della stessa nascita del linguaggio come di quel luogo non-luogo in cui il linguaggio fa essere il mondo per noi. Proprio come Adamo si trovò di fronte alla necessità di dare i nomi per la prima volta alle cose, così il poeta mette in atto un nuovo nominare delle cose, un nominare che non si traduce mai in un gesto definitivo, ma che piuttosto lascia perennemente aperto lo spazio per la parola che non c’è o che non c’è ancora. Così, in questo pensiero poetante, il linguaggio tende costantemente a negare se stesso, per lasciare spazio allo stesso tempo all’innominato. Mi riconosco molto, in questo senso, nella filosofia della voce di Agamben e negli studi su voce e linguaggio di Benveniste, Zumthor e Bologna, nella possibilità di originarietà che si dischiude per la parola poetante, nella prospettiva di questi autori, come nuova forma del filosofare.
La sua poesia ci dice
tre inediti
*
non ricordava la mia lingua, aveva tre tumori
alle ossa. non sapeva di essere stata mia nonna
che mi piaceva spaventare il suo pappagallo
battendo con la scopa sulla gabbietta bianca
[…]
(prima che tutto fosse demolito, tra di noi vi era
una sorta di parlato in lingue desuete che
andava a tre parole alla volta, poi tutti gli appunti
il repertorio della caduta in cui abbiamo messo
tutte le ossa rimaste nella gabbietta di un
pappagallo morto).
*
a largo di Vasto una piattaforma petrolifera
estrae combustibili fossili da ventinove pozzi
collegati ad una petroliera tramite una condotta
per lo stoccaggio e smistamento del greggio
[…]
(nel bagno nessuna finestra [solo] una ventola
nella doccia mi lavavi, guardavi la peluria rada
sul pube [il] contatore dello scaldabagno).
*
dopo la pioggia guardano attoniti ai
margini del campeggio le acque reflue fuoriuscire
dai tombini & ristagnare ai bordi delle strade
si sforzano di dare i nomi a cose segrete
che invece restano solo cose tra le cose
[…]
(ti svegliavi al mattino per difendere un destino
che chiamavi il prodigio iniziale. ora il vomito
si trova coperto da uno strato di segatura
ai margini si vedono ancora alcune farfalline
in brodo).
Dicono di lui e della sua poesia
Vittorino Curci su Repubblica, Bari, del 23 giugno 2024
La silenziosa vita degli oggetti, lo sbriciolarsi del tempo in gesti lenti, le lucidissime visioni, le atmosfere metafisiche e i luoghi del tutto indefiniti di questa poesia mi hanno fatto pensare alle indimenticabili magie cinematografiche di Paradjonov.
Ivan Crico su Cenere del risveglio su Fissando in volto il gelo
[…] Le parole di Trizio, con la loro essenza finemente scolpita, rimandano istintivamente alla sapienza lirica dei grandi poeti greci, ma anche alla nitidezza formale di autori più moderni, da Seferis a Ritsos, fino ai nostri Ceni e Guida, poeti in cui il quotidiano si trasfigura in simbolo, pur rimanendo spesso bagliore indecifrabile, silente, proteggendone il mistero […]. Per Trizio, la voce diventa quindi un simbolo dell’alterità irriducibile dell’essere, qualcosa che non può mai essere completamente espresso o ridotto al linguaggio tecnico della modernità. Questo concetto si riflette in un’altra parte della sua poesia:
“Tutto svanisce nel canto, persino / il grido ultimo si perde / nelle fessure del cielo / che ingoia il sole e il ricordo / in una sola nota spezzata.”
Qui, la voce si dissolve nel canto di un cosmo la cui armonia non può darsi senza contemplare la propria infinita sistematica disgregazione. Trizio vede il linguaggio come un luogo di drammatica scoperta, in cui l’uomo si confronta con il mistero dell’essere, un mistero che, come affermava Montale, non risponde mai del tutto alle nostre domande […].
Antonio Corona su Cenere del risveglio, Il Tasto Giallo
[…] Trizio affronta ancora il tema della guerra, le paure e le speranze sempre più dissolte di fronte alla crudeltà, all’“ansia di attendere la vigilia” e alla consapevolezza che “senza gli alberi, le strade seccheranno la radura”. Nell’attendere il linguaggio si sgretola, il valore delle parole viene meno e “perduta è questa guerra”. Le guerre della nostra epoca sono sconfitte della parola stessa, “gli eroi cercano indietro le loro madri. Non temere, mangerai la nuda terra”. Il concetto e la parola liturgia ritornano sovente […]: “cosmica liturgia dimessa preghiera” così come anche “liturgia del lascito” dialogano con l’autore in un’atmosfera cupa e densa di attesa al cambiamento, di un intimo contatto col proprio sentire che trova sfogo ed esempio anche nella naturalità “nel gergo segreto degli insetti” o “”nei segni muti e cuneiformi delle pietre”
Michele Trizio e i suoi poeti
Vito Bonito è sicuramente uno dei riferimenti più presenti nella mia scrittura, accanto ad Antonio Santori, poeta marchigiano, la cui straordinaria poetica del nominare ancora non trova giusto riconoscimento. A questi si aggiungono l’Alfonso Guida di Irpinia e Eugenio de Signoribus. Ci sono poi figure classiche che cerco di assecondare o arginare, a seconda dei momenti. Penso al poeta portoghese Herberto Hélder o a Eugenio Montale.
Ho trovato, infine, meravigliosi Obit, di Victoria Chang, e La domenica pensavo a Dio, di Lutz Seiler. Accanto a questi poeti, tengo sempre sul comodino Il linguaggio e la morte di Giorgio Agamben e La seconda nascita di Aldo Giorgio Gargani, dove il filosofo italiano specialista di Wittgenstein, descrive le potenzialità per la scrittura di una storia alternativa a quella che si è imposta sulle nostre vite, “la narrazione di ciò che non è stato detto e non è stato fatto, ma che ha aleggiato sospeso sulle nostre parole e sulle nostre azioni, ed è tutta la storia che ci fa trepidare”.
In dono a Michele e ai lettori di Il Tasto Giallo, di Vito Bonito da Fioritura del sangue, Perrone editore, 2010, estratto da https://site.unibo.it/atlante-poeti/it/poeti-nord-est/vito-bonito
Angelo dei crampi
angelo de le mani
tu che non perdoni
nostro essere umani
tu che non parli
ma solo ferire ci doni
morire
in questa luce sgomento
scendi colpisci
dammi la morte
dammi la morte
fai me fiorire
come fiore si sente
fiorire in suo fiore
e si prega e unge
nel suo non sapere
nel suo non sapere più
perché cadere infinita svanire
come bestia sotto stelle di sangue
si lascia nel grido soffiare
si lascia la mente soffrire
per non sapere
per non sapere più
quale grazia cercare
quale luce
tremare
Michele Trizio (Bari, 1979) insegna filosofia antica e medievale presso l’Università di Bari. Ha esordito con la raccolta Cenere del Risveglio (Marco Saya Editore, 2024). Suoi inediti sono apparsi sulle riviste Avamposto (n. 1 e online), Atelier Poesia (online), Minima (2024/1) e Doppia Esposizione. La raccolta Davaj è risultata vincitrice, come inedito, del premio Bologna in Lettere 2025 e del premio Carrera. Sempre nel 2025, una sua opera è stata selezionata nella dozzina finale del premio Pagliarani. L’opera Davaj è stata pubblicata nell’ottobre 2025 per la casa editrice puntoacapo.





