a cura di Rosanna Frattaruolo
Ulisse Morgione della poesia dice
Da quasi cinquant’anni frequento la poesia e ho visto che per definirla vale tutto e il contrario di tutto.
Lascio agli esegeti, ai dotti purissimi, il compito di continuare l’ardua impresa, io leggo, leggo molti versi ed ogni tanto scrivo.
La poesia è soprattutto suggestione e sono convinto che debba avere dei tratti distintivi irrinunciabili, qualcosa nella forma e nella lingua che la renda diversa dalla prosa, dallo scrivere senza andare a capo, come la musica, il ritmo, le assonanze, un linguaggio che si discosta dal parlato senza essere aulico, anche perché come diceva Sinisgalli “che cerca i miti nella poesia non li trova, la poesia li ha rifiutati; non chiedere la fede alla poesia; non è acqua, non è vino, non disseta né addormenta”.
Il mio rapporto con la poesia è di riscrittura biografica, di scavo archeologico, di dialogo interiore spesso con un “tu” che sono io. I miei versi sono come il linguaggio della memoria, nascono nel dormiveglia, fuggono dall’onirico nel quale sono stati per attimi, mesi e forse anni.
La sua poesia ci dice
Non scrivo dell’al di qua
di come nello stagno scintilla
la coda in fiamme di una volpe
e del malvagio che l’ha incendiata
con furore medievale.
Non scrivi per i credenti
per la tonsura che non mi appartiene
per la cricca dei barbuti
a cui tributo una mite indifferenza
perché ho appreso a vivere senza
la celebrazione, senza la sindone,
senza l’unzione.
*
La faccia nascosta del dado
che non guida il gioco per sorte,
la conta che ti saltava
affidando ad un altro
il compito di cercare
e a me di salvarmi.
Questo noi siamo ancora
e il gioco mai si è fermato:
un piede sul greto
l’altro nell’erba
appena poggiato.
*
Anno Domini 2005
Lo stigma fu d’aver capito tardi
dove s’adunavano le nebbie
la mala sorte che avrebbe dilagato
sopra i nostri visi
e il nostro ardore.
Tu fiera nel discorso
nel tuo vocabolario dell’amore,
io nella nevrosi
nella distanza dolorosa
da ogni gioia,
da ogni incolpevole carezza.
Dicono di lui e della sua poesia
Alfredo Rienzi, Di sesta e di settima grandezza, 1 agosto 2025
La parola poetica di Ulisse Morgione, così come si mostra nell’unica raccolta ad oggi data alle stampe (La cura del liutaio), opera anelando all’ordine del verso e del significato, tende a una estrema precisione e si pone come ideale l’essere «cristallo purissimo e cantato» in un «perfetto ordine del creato». Attento al delicato equilibrio («è maestria nel mantenere l’equilibrio») tra simbolico e velato, da un lato, e una mai abiurata chiarità del dire, il poeta non cede mai a una lingua bassa e prevedibile, ad accostamenti sintattici scontati e usurati. In questa cornice espressiva, la densità dello sguardo e del sentire volge al confine e oltre dell’umano, verticalizzandosi senza smarrire le radici: «Della luce ho fame / della bellezza, dell’armonia dei luoghi / compiuti e misurati, / del disegno preciso / del divino e dell’umano […] animale in fuga / verso l’ultima spiaggia.». Questa doppia polarità alta e bassa si rincorre e rispecchia, ma soprattutto si fonde e si armonizza; un vento di sacralità («un silenzio primordiale», «la grazia», «il libro dei salmi», «i piedi dei santi» ecc) soffia e feconda i «palmi aperti delle mani […] terra da seminare». Non estranea a questa tensione interiore è, infatti, la figura stessa del liutaio che cura, che unisce «i pezzi uno ad uno / con i lembi esatti», che nel molteplice cerca l’uno, nelle periferie la memoria del centro e nel proprio sé «ricomposizione e accordatura».
Rosanna Frattaruolo, La cura del liutaio: l’atto riparatorio della poesia su Il Tasto giallo
In La cura del liutaio — partitura più ampia e strutturalmente solida, che dà il titolo all’intero volume — cambia la postura. Nell’acqua «che a te giunge / [e che] ha in sé la storia di tutti i sassi, / dei salti e delle gore / dove, trattenuta, si è fermata / in orbite lente intorno al gorgo» (p. 24) v’è la consapevolezza del presente che ha le radici nella storia: se nella prima sezione, segnata dal distacco e dalla mancanza, lo sguardo poetico si rivolge con rassegnazione al passato — in quanto immutabile, seppur vivido —, qui si avverte una variazione prospettica, che non è passiva contemplazione, ma offre la possibilità della riparazione.
Morgione traccia un percorso, stila una sorta di lista del necessario per proseguire nel viaggio, per tornare, per quanto possibile, a vibrare. «In questa giungla / dopo il mancamento» l’autore apprende «la misericordia come sola chiave / per questa carne giovane». Ha fame di luce (p. 29) e, di fronte alla frantumazione dell’esperienza umana, non arretra, ma affida alla poesia il lavoro di riparazione: «Scrivere [è] il lessico essenziale / di una cura» (p. 42) e il poeta, come un liutaio, «incolla i pezzi uno ad uno / con i lembi esatti, combacianti» (p. 36). «La premura come essenza / come filo che cuce» (p. 37) si accompagna, tuttavia, alla necessità di lasciare andare, di non «trattenere ciò che non rimane» (p. 52) e, nella poesia, Morgione lavora per sottrazione, levigando il verso, lasciando che emerga nel suo naturale rigore.
L’immagine del liutaio non è solo metafora, ma manifesto poetico: il poeta, come l’artigiano sugli strumenti da riparare, lavora sulla materia umana, non per rivendicare un’armonia perduta, ma per registrarla, riaccordarla, renderla nuovamente capace di emettere un suono — seppure diverso da quello che serbava in memoria. E Morgione si rivela abile in questo, intervenendo con la precisione e l’ascolto di chi conosce bene la necessità del silenzio nella poesia. «Il silenzio esalta la parola» scriveva M. Luzi ed è necessario per «rivelare immenso / il più piccolo particolare della foglia» (p. 53) […] e non si tratta di una pratica consolatoria, ma di una nuova postura po-etica ed esistenziale: prendere atto della frattura, mai negarla, tentare comunque di ripararla.
Ulisse Morgione e i suoi poeti
Da ragazzo ho nutrito un amore viscerale per Cesare Pavese e i simbolisti francesi; Mario Luzi e Montale hanno poi dato sostanza alla mia passione, contenuto e mistero nel contempo.
Ho letto per anni, tutte le sere come fosse un breviario, La luna dei Borboni di Vittorio Bodini e poi un vasto ventaglio di versi da Neruda alla Candiani. Oggi sul mio comodino ci sono Carlo Bordini e Mariangela Gualtieri.
In dono a Ulisse e ai lettori di Il Tasto Giallo, di Carlo Bordini, Sogno di Elena, da I costruttori di vulcani – Tutte le poesie 1975-2010, Luca Sossella editore, 2010
Sognavo d’essere morta, eppure camminavo
per la stanza, per la casa
chiedendomi chissà, se la mia decom-
posizione era già cominciata
e se gli altri se ne sarebbero accorti.
Poi
cominciai a preoccuparmi per l’odore,
se si sentiva o no; e temevo, poi,
che avrei attaccato a qualcuno la
mia morte.
Ulisse Morgione, nato in Calabria nel 1959, dopo la maturità classica si trasferisce a Firenze dove si laurea in Lettere Moderne presso l’Istituto di Linguistica e Dialettologia. Là vive fino al 2000, ricevendo dalla terra toscana un profondo impatto emotivo che ne segnerà il gusto e la sensibilità al territorio.
Nel 2000 si trasferisce a Napoli e dal 2024 cessa il lavoro di manager presso un’importante azienda farmaceutica. Nel 2020 pubblica La cura del liutaio, Currenti Calamo editore. I suoi testi sono presenti su diverse riviste e blog letterari.





