
“La cura del liutaio” di Ulisse Morgione: l’atto riparatorio della poesia
di Rosanna Frattaruolo
«C’è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare, io dico che c’era un tempo sognato che bisognava sognare». Come nel brano di Ivano Fossati C’è tempo, anche Ulisse Morgione — che legge poesia fin dall’età di quattordici anni e scrive quasi ogni giorno — ha atteso a lungo prima di pubblicare il suo primo, e finora unico, libro: La cura del liutaio (Currenti Calamo, 2020).
Nei versi del Canto alla sequoia di W. Withman, che introducono la prima sezione — «emanava dal tronco possente e dai rami, / dalla corteccia spessa un buon piede, / questo canto delle stagioni e del tempo, / canto non solo del passato, / canto anche del futuro» — è racchiusa l’essenza del libro di Morgione. Entrambe le partizioni, Radici e La cura del liutaio, restano, infatti, intimamente annodate al tempo.
In Radici la memoria è materia viva: ciò che siamo è frutto di ciò che è stato. Questa consapevolezza attraversa i testi di Morgione, dando forma a una poesia che guarda al passato in un atto di ricomposizione del sé attraverso frammenti di esperienze, immagini e voci del passato: «Le ragazze avevano nomi di fiori / le baciavamo tutte nel sogno / dietro le barche capovolte / o sulle sedie di corda annodata, / almeno un migliaio di volte» (p. 15). L’atto creativo non si rifugia nel ricordo ma lo interroga, lo riassume e tenta una forma di conciliazione dei tempi e, alla fine, «Migliore sembra il viaggio, / i lembi […] si fondono / diventano l’intero e tutto, ricomposto, / sembra vero» (p. 1).
L’esperienza del distacco — da un genitore, da un affetto, da una terra — lascia una ferita profonda e strutturale nei testi e origina, in quel sentimento di mancanza, una memoria attiva in cui il dolore diventa parola poetica. Il verso «La mia parabola privata si biforca all’apice, ricade in direzioni opposte» (p. 11) fa affiorare la frattura interiore dell’autore, che vive una sorta di dualità. «Vivo scisso» confessò l’autore in una corrispondenza privata, diviso tra ciò che è in un preciso luogo e ciò che sente di essere altrove. La biforcazione, il sentirsi estranei e non pienamente aderenti a nessun luogo, abitati da una nostalgia che non è solo del passato, ma anche, e forse soprattutto, di sé. In «Questo essere lontano / non appartenente a un luogo / ad una terra, cercare impronte» (p. 36) si riconosce solo chi ha vissuto l’esperienza della migrazione: quella mancanza, che non è assenza, ma presenza dolorosa nello sguardo retrospettivo su ciò che si è stati senza averne coscienza. Il dolore, nella poesia di Morgione, non è preludio di morte, ma pretesto di reazione. Nel testo a p. 12, lo sguardo dell’autore comincia a spostarsi dalle radici, che hanno caratterizzato tutta la prima parte, ai rami, alla loro «geometria insondabile», introducendo la sezione successiva, nella quale l’autore accantona lo sguardo retrospettivo, richiama la necessità della «mano cruenta, necessaria / di chi li pota» e il «loro mistico rinascere» partendo proprio dallo slabbro.
In La cura del liutaio — partitura più ampia e strutturalmente solida, che dà il titolo all’intero volume — cambia la postura. Nell’acqua «che a te giunge / [e che] ha in sé la storia di tutti i sassi, / dei salti e delle gore / dove, trattenuta, si è fermata / in orbite lente intorno al gorgo» (p. 24) v’è la consapevolezza del presente che ha le radici nella storia: se nella prima sezione, segnata dal distacco e dalla mancanza, lo sguardo poetico si rivolge con rassegnazione al passato — in quanto immutabile, seppur vivido —, qui si avverte una variazione prospettica, che non è passiva contemplazione, ma offre la possibilità della riparazione.
Morgione traccia un percorso, stila una sorta di lista del necessario per proseguire nel viaggio, per tornare, per quanto possibile, a vibrare. «In questa giungla / dopo il mancamento» l’autore apprende «la misericordia come sola chiave / per questa carne giovane». Ha fame di luce (p. 29) e, di fronte alla frantumazione dell’esperienza umana, non arretra, ma affida alla poesia il lavoro di riparazione: «Scrivere [è] il lessico essenziale / di una cura» (p. 42) e il poeta, come un liutaio, «incolla i pezzi uno ad uno / con i lembi esatti, combacianti» (p. 36). «La premura come essenza / come filo che cuce» (p. 37) si accompagna, tuttavia, alla necessità di lasciare andare, di non «trattenere ciò che non rimane» (p. 52) e, nella poesia, Morgione lavora per sottrazione, levigando il verso, lasciando che emerga nel suo naturale rigore.
L’immagine del liutaio non è solo metafora, ma manifesto poetico: il poeta, come l’artigiano sugli strumenti da riparare, lavora sulla materia umana, non per rivendicare un’armonia perduta, ma per registrarla, riaccordarla, renderla nuovamente capace di emettere un suono — seppure diverso da quello che serbavamo in memoria. E Morgione si rivela abile in questo, intervenendo con la precisione e l’ascolto di chi conosce bene la necessità del silenzio nella poesia. «Il silenzio esalta la parola» scriveva M. Luzi ed è necessario per «rivelare immenso / il più piccolo particolare della foglia» (p. 53).
Ma anche quando appare «come una piazza vuota», senza riparo (p. 13) o stagna nell’assenza dei «passi / sulle strade calme di cotto» (p. 5), il silenzio non è mai solo quel segmento spazio-tempo di assenza di suono, ma è il reagente che permette al suono (alla parola) di emergere con forza, precisione e verità. Nella poesia di Morgione il silenzio è interludio alle voci che arrivano dal passato — un brusio di voci giovanili, le ragazze coi nomi di fiori da baciare, le gare di tuffi dal porto, le giovani russe che parlano al telefono, la banda che accompagna il santo —, a quella potente della parola che, attraverso l’acqua, viene resa poeticamente udibile — «erano salti, schiume evaporate alla calura»: quel suono del salto, dello sfrigolìo dell’evaporazione arrivano direttamente all’orecchio, prima ancora che allo sguardo.
Il silenzio è anche la condizione spirituale da cui nasce la parola, avvicinandola a una sorta di preghiera laica. La poesia si fa gesto rituale di offerta, diviene invocazione, un atto umile che si affida alla possibilità di essere ascoltato, o almeno accolto, o benedetto — benedici «chi non chiede, chi trattiene / al vaglio l’essenziale / e lascia al vento gli altri semi, / che la terra paziente custodisce» (p. 19) — e non si tratta di una pratica consolatoria, ma di una nuova postura po-etica ed esistenziale: prendere atto della frattura, mai negarla, tentare comunque di ripararla.
Estratti dal libro
Più che l'umane inutili lagnanze
la geometria insondabile dei rami
m'interessa, quel loro crescere ostinato
il loro flettere, il loro mistico rinascere
dopo la mano cruenta, necessaria
di chi li pota.
(p. 12)
*
Offriamo il corpo come una pagina da scrivere
per quando i demoni del buio
verranno a bere alle ginocchia
di tutti i sogni lasciandoci al mattino
al primo canto della tortora.
Offriamo i palmi aperti delle mani,
carte dei nostri viaggi,
e lasciamo che sia terra da seminare
per la curiosità
per la tua taciuta voluttà
Nella cavità di un tronco
dove ora c'è il nido di una gazza
un tempo c'erano i miei anni
diventati legno resina corteccia.
(p. 25)
*
Questo essere lontano
non appartenere a un luogo
ad una terra, cercare impronte
inesistenti, legami lisi impermanenti,
questo saettare inutile e furioso
di braci e pentimenti
si placa - non si risolve - nell'oblio doloso.
La cura del liutaio ci vorrebbe
che incolla i pezzi uno ad uno
con i lembi esatti, combacianti
e dopo lucida le scaglie d'ebano
brillanti.
(p. 36)
Ulisse Morgione, nato in Calabria nel 1959, dopo la maturità classica si trasferisce a Firenze dove si laurea in Lettere Moderne presso l’Istituto di Linguistica e Dialettologia. Là vive fino al 2000, ricevendo dalla terra toscana un profondo impatto emotivo che ne segnerà il gusto e la sensibilità al territorio.
Nel 2000 si trasferisce a Napoli e dal 2024 cessa il lavoro di manager presso un’importante azienda farmaceutica. Nel 2020 pubblica “La cura del liutaio, Currenti Calamo editore. I suoi testi sono presenti su diverse riviste e blog letterari.





