a cura di Rosanna Frattaruolo
Antonio Bux della poesia dice
Per me scrivere equivale semplicemente a un movimento di connessione e di condivisione.
Provo a connettere il corpo con la mente generando la fusione dei due aspetti così diversi solo per spirito di condivisione del risultato con il mondo, immaginando che i resti di quella comunione possano un giorno servire da sentimento vettoriale per qualcun altro della mia specie. Si scrive ovviamente anche per altre ragioni, però credo che a oggi questa sia per me la ragione principale. Preferisco non dilungarmi oltremodo nella risposta perché più vado avanti nella mia ricerca e meno ne so. So soltanto che devo (o, se preferite, voglio) continuare.
La sua poesia ci dice
tre momenti da “La diga ombra” (Nottetempo, 2020)
* Giorni d’acqua, simili a dèi… Ma cosa viene, da sopra o sotto, a sognare gli esseri e poi farli umani, bestie da pascolo, vivono davvero il loro tempo? Sembra sia uno specchio girato contrario, eppure vedono la forma di sparire e anche la forma visibile, con gli stessi occhi che si muta ogni giorno e non ha fine ma per poco, la fine che poi diventa l’inizio di un nuovo giorno quando dèi piovono, e sono gocce aperte al corpo di essere umani; ma è un pianto, a ciel sereno, tendere lo sguardo come fosse nuvola per guardare gli altri, farli animali, o essere del vento come un canto. Anni perché fate fiume, dove e quanto il sogno dura, se per durare si deve sparire d’acqua evaporando un solo tempo perché nel tempo si muore? (Voci di dèi, una nuvola sopra le teste disegna le voci tutte le idee e i corpi quando si amano così i giorni, i profili già ombra le vite come ombre equidistanti).
*
Perché dire un suono. Una figura
non muta al suo risveglio, germina
lontano il geroglifico se parla,
ed è la stessa lingua di vedere
a malapena, sbirciando un prato
l’ombra dove la parola chiama.
Ma un prato, qui, perché dirlo?
Avvolto come in sogno, aprirebbe
al chiaroscuro di ciò che sotto
tende, saprebbe mostrare all’uomo
la curva senza unire, cielo e terra
e una parola così, già sparita.
Perché venire al mondo, allora,
perché parlare e non veder la traccia?
Esseri segreti di un mistero nuovo
avete fatto del tempo suono
senza più parole, dove un uomo ama
anche il suo silenzio; ma dirlo, qui,
a voce strana, sembrerebbe
poco anche per sentire, perché esistere
è la stessa cosa, figura muta umana
il prato continuerebbe a dire.
* Vivono di un solo amore gli alberi. Affratellati, in nome di un dio cenere bruciano per risorgere in un filtro d’aria, così cambiano l’atmosfera, al sogno, fanno delle teste in cielo e poi il velo dell’oscuro che noi siamo. Ma parte di un ossigeno o del veleno li fa un giro più del mondo quando l’occhio tenuto zitto interno al verde preme. Terra che li fortifica soltanto per dolore ma per dolore ce li avvicina e fa sembrare puro il loro sonno. E se proteggono senza cellule la sfera che in vita gira a perdifiato e ci coltiva non cadranno nel rovescio, una sola fiamma di tempo per noi comunemente accesi il rogo disunito finirebbe. Ma tagliati, la notte che li assorbe, nel sogno come sono di parole e buche un tuffo dall’ombra li allontana e sembrano perduti tra le foglie ma vivi senza esistere perché si pianteranno a spora nel sole da qui anni luce. Oltretomba di ogni uomo quel seme d’albero tramonta la sua specie forse per assurdo sentendosi già umano ferendo un po’ d’azzurro il clima, le pressioni autunnali di una vita, parte di ciò che viene. Ma con amore questa ferita torna sopra i campi svolge di nero un’abetaia che pare di essere uniti, spogli nel tronco ad appassire, e col fiore vano. Mantra avvolto dentro la culla il legno duro chiude l’ombelico ma apre l’estinzione: e a cosa serve Dio, se tagliando in due l’albero sono io? A cosa serve un io se per chiome lucenti anni si perdono tra arie, nuove, e chi non è rimane, e trasparente poi vedrà lo spazio, il tempo, la sua sparizione? Mani se corrugano, per il triste destino che è un dono, simile a radice sopravvivendo, questo segreto ciò che gli alberi proteggono, sanno che di una pasta informe è benedetta l’energia, e senza meta.
Dicono di lui e della sua poesia
Giuseppe Munforte, estratto della nota a La diga ombra (Nottetempo, 2020)
Benjamin ha scritto che il poeta sta “tra la notte e la vita variopinta”. In questo territorio di confine, liminare, il linguaggio non è ancora avvenuto ma è già presente nell’intenzione del poeta. Il poeta è qui senza parola, non ha opera, e allo stesso tempo ha l’intera opera presente a sé: è gravido non del testo che verrà ma del proprio destino. Per egoismo potrebbe tacere, se a quel destino non corrispondesse la necessità di sacrificarsi alla parola. Quel destino si compie solo acconsentendo alla scrittura, “ora guardando al fondo di se stesso, ora con coraggio noi, su verso la luce” come dice Benjamin; dando forma a “quello che viene, da sopra o sotto, a sognare gli esseri”, nei versi di Bux. La vocazione di Bux alla poesia, il suo essere poeta, che è accadimento raro, inspiegabile, si potrebbe dire miracoloso per quanto il poeta travalica il controllo e vivifica la dimensione più controllata dell’umano, il linguaggio – questo accadimento nel caso di Bux mi è stato da subito evidente dalle prime poesie sue che abbia letto, e questa silloge ne è l’ulteriore conferma.
Giancarlo Pontiggia, estratto dalla nota a Sindrome kamikaze (in “Poesie”, Marco Saya Edizioni, 2024)
«Se ogni poesia è come un piccolo pianeta nel quale tutto vortica, il libro è come una vasta galassia in cui ogni frammento trova il suo misterioso equilibrio. Ma tutto il vasto gioco degli echi e delle risonanze, delle visioni e delle cadute confluiscono nelle pagine finali, dov’è Dio, o meglio la sua sostanza ossimorica, vera e propria coincidentia oppositorum, ad accamparsi, riassorbendo nel proprio nome tutti i nomi che lo hanno preceduto, e che forse non erano altro che suoi attributi, misteriosi annunci del suo manifestarsi. E fa impressione, qui, che si parli di un «Dio d’amore», di un Dio dove «è tutto in ascolto», ma anche del «sonno / di ogni parola». Come se le parole che hanno preceduto la gloriosa epifania del Suo nome, non fossero altre che le parole di un sonnambulo, di uno che vaga nella notte del senso e del pensiero: parole che solo ora giungono a un grado di intelligenza chiara, luce di luce. Il nuovo libro di Antonio Bux si dà allora come il libro di un mistico che sente la povertà di ogni parola e di ogni pensiero, di cui pure ha bisogno, e nel quale pure sprofonda, pagina dopo pagina, evocazione dopo evocazione. E sarà rivelatrice l’immagine finale del «volto / teso al cappio di un’idea // sparita presto». A colui che sia giunto qui, autore o lettore non importa, non resta che la scelta suprema: «misurati / oppure scegli il cielo».
Enrico Testa, nota a Sasso, carta e forbici (Avagliano, 2018)
Emana da Sasso, carta e forbici di Antonio Bux un singolare fascino legato al sentimento dominante nella sua poesia: quello, per usare le parole di Arbasino, «di una desolata meridionalità». Le armoniche semantiche di questo motivo sono svolte però rinunciando a ogni compiaciuto «vanto delle vittime», sostituito da una pronuncia scabra, dolorosa e pungente e da un andamento testuale netto e narrativo. In alcuni momenti di questo libro così denso, si ha l’impressione di essere di fronte, per trasfigurazione immaginativa e personaggi messi in scena, a una versione poetica, cambiata la latitudine geografica, delle splendide Botteghe color cannella di Bruno Schulz per magia sciamanica volate fino al Sud.
Silvia Bre su Gemello falso (Avagliano, 2022). Estratto dalla motivazione della giuria (formata da Silvia Bre, Ilaria Cipriani, Stefano Dal Bianco, Umberto Fiori e Antonio Riccardi) del premio Carducci per Gemello falso, premiato nella terna finalista nel 2023.
In “Gemello falso”, ispirato dalla lingua e in continua rincorsa di parole e suoni, Bux intesse un tormentato dialogo tra due poli che si fronteggiano e a tratti si dilaniano: il corpo, che accampa le proprie sfrenate pretese, e l’anima, che aspira alla sua libertà. Calandosi di poesia in poesia in un ruolo o nell’altro, guidato da una passione intransigente per la propria verità, Bux si inabissa in un vortice che seduce e travolge il lettore, al quale appare subito chiaro che quella tensione tra le due istanze interiori significa immediatamente altri ir-riducibili conflitti: quello tra disgregazione e ricomposi-zione, e sullo sfondo quello tra bene e male, dove il male è un corpo che non sopporta limiti e non si lascia sotto-mettere da nessun governo, un corpo che ha spodestato il suo padrone gettandolo in uno stato di costante espropriazione, in un perenne esilio.
L’autore – che ha rischiato, che ha voluto divorare il conflitto – infine se ne lascia divorare.
Non è nel corpo del poeta che si risolve il confronto, ma sul piano più elevato e impersonale della sua alta e dolente poesia.
Ivan Crico, estratto dall’introduzione a Poesie (Marco Saya Edizioni, 2024)
Anche nell’opera di Antonio Bux, una delle voci più importanti del panorama poetico nazionale e non solo, l’essenza della poesia si palesa come la ricerca di una verità mai astratta, sempre calata nel cuore delle cose, una verità che attraversa i confini delle parole, emancipa la parola dal giogo dell’utile e si immerge negli abissi della condizione umana. Un linguaggio in costante evoluzione, capace di sfidare continuamente le norme lessicali e culturali, indifferente alle mode del momento.
In questo agglomerato di componimenti poetici che formano il volume “Poesie”, Antonio Bux, figura poliedrica, autore di poesie memorabili, curatore di alcune tra le migliori collane di poesia contemporanea e raffinato traduttore, ci conduce in un periplo emozionale e riflessivo che si dirama tra le sottili nuances dell’animo umano e i misteri imperscrutabili dell’essere. Ciascuna creazione ci permette di addentrarci in un labirinto di versi cesellati con rara sapienza, in un viaggio attraverso sconosciuti paesaggi interiori, un territorio al contempo ignoto e familiare, dove la poesia si erge come strumento per penetrare, esprimere e condividere le nostre emozioni più intime attraverso un processo di straniamento continuo, un processo di smantellamento radicale di ogni punto di riferimento. Ciascun verso costituisce una tessera di un mosaico più vasto, un ritratto della vita dipinto con parole che scintillano come stelle nel buio più cupo della notte, in un diuturno tentativo di captare l’essenza dell’indescrivibile, della perturbante sacralità dell’effimero.
Antonio Bux e i suoi poeti
Non ho propriamente dei poeti di riferimento, mi piace pensare che ogni poeta degno di nota abbia delle poesie che mi hanno colpito studiandoli di volta in volta. Ovviamente sento a me più vicini certi poeti: da un classico come Lucrezio a un Rimbaud, così come Celan, Thomas, Rilke, Dickinson, Lowell, Cvetaeva, Larkin, Vallejo. Per quanto riguarda il nostro paese, sicuramente i poeti che ho amato di più sono Leopardi, Corazzini, Luzi, Sbarbaro, Campana, Rosselli, Calogero e Fortini. Dei più recenti, posso dire senz’altro Benedetti. Ma davvero, mi piace più pensare alle singole poesie che ai poeti in quanto tali.
Infatti amo anche tantissimi testi scritti da autori comunemente detti “minori”.
In dono ad Antonio e ai lettori di Il Tasto Giallo, di Mario Benedetti, Tutte le poesie, a cura di S. Dal Bianco, A. Riccardi, G. M. Villalta, Garzanti, V edizione 2024, p. 67
I monti del Cantal In fondo ai monti del Cantal, di sera, guardiamo la casa più vecchia di Saint-Flour. È stato un uomo a tenere la casa per noi. A poco a poco ha comperato le cose che sapeva di un tempo e di un altro. E adesso è così. Siamo entrati l’indomani. In basso c’era un po’ di archeologia del posto, e poi del legno, pavimenti, armadi dei contadini del Cantal. Poi ho voluto comperare le fotografie di Jacques Dubois, Les Auvergnats. La notte abbiamo dormito bene per l’aria fresca che c’è sempre anche d’estate. E ho visto un carro con i buoi che andava via per l’occidente: solo hanno le musiche e sanno sognare con forza i giorni nell’Europa dell’Est, credo di averti detto. Abbiamo mangiato cose delicate e cercato di ricordare il vino, poi ti ho parlato, mi hai detto senza capire cosa, la mattina quando ti sei svegliata triste e come disperata per la mia vita.
Antonio Bux (Foggia, 1982) è autore ed editor. Ha pubblicato, tra gli altri, Trilogia dello zero (Marco Saya, 2012), Naturario (Di Felice, 2016), Sasso, carta e forbici (Avagliano, 2018), La diga ombra (Nottetempo, 2020), Diario dell’intruso (Marco Saya, 2021), Gemello falso (Avagliano, 2022) e Mappe senza una terra (RPLibri, 2023), con i quali è risultato selezionato e finalista in vari premi, tra i quali il Viareggio, il Carducci, lo Strega Poesia, il Camaiore, il Città di Como, il Lorenzo Montano, il Notari e il Prestigiacomo (vincitore sezione under 40). Ha inoltre pubblicato tre libri in spagnolo, due libri in dialetto foggiano e ha tradotto vari autori di lingua spagnola. Dirige alcune collane di poesia e scrive sulle pagine culturali del quotidiano “La Repubblica” (edizione di Bari).
foto copertina di Claudia Di Pierro





