DOVE ANCORA NON SIAMO NATI è la recente raccolta poetica firmata Danila Di Croce, edita da puntoacapo editrice (2024), con introduzione a cura di Ivan Fedeli. Certamente una silloge copiosa, un vero e proprio percorso poetico che si articola in tre tappe – Un nuovo turno di veglia, Di un’altra gravità, Di là dal cancello – in cui il linguaggio diventa traghettatore di uno stato dell’anima tra tensione e distacco. Una poesia in progressione, non conclusa ma fertile, segnata da quella luce che ancora non siamo, ma che cerchiamo. La struttura poetica è solida e l’autrice dimostra grande padronanza metrica e scelte stilistiche ben definite. Anche l’estrema omogeneità delle sezioni confermano l’accurata scelta dei testi e della progettualità dell’intera opera.

Nella prima sezione la veglia e il vegliare racchiudono l’intrinseca volontà dell’assistere, della presenza precisa e delicata: non una semplice “presenza” notturna, ma uno stato di attenzione sospeso tra l’esserci e la mancanza: “Dammi il compito della sentinella, / che lavora di sguardo e che lontano / allunga la spinta, ne fa un elastico / teso a tornare, a restituire l’orizzonte agli occhi”. L’io poetico resta sveglio sotto un “cielo stordito di buio” alla soglia tra sonno e sogno. Un nuovo turno di veglia funge forse da risveglio interiore: la voce poetica appare compiuta, ma in transito verso una luce che ancora ignora, pur percependola. La consapevolezza cresce in forme imperfette, ma cariche di tensione. I testi sembrano tra loro concatenati in un susseguirsi di accadimenti e sensazioni quasi ovattate, la luce non è mai forte ma è presente insieme al vento, alla nebbia, agli odori, alle parole, anch’esse dette talvolta in silenzio; un silenzio che aleggia e che aggiunge alla veglia l’ascolto interiore. Sì, perché, prima di tutto, è importante ascoltarsi e permettere alla poesia di tramutare il dolore in consapevolezza.
La seconda sezione è affidata, in esergo, a un frammento di poesia di Marina Cvetaeva: “E, forse, la vittoria vera su tempo e gravità: passare senza lasciare tracce, senza proiettare ombra sui muri…”. Si riflette sulla possibilità di sfuggire al passare del tempo e alla forza di gravità, aspirando a un’esistenza quasi eterea, senza lasciare impronte o segni visibili della propria presenza. Un richiamo importante che Di Croce utilizza per introdurci in un nuovo capitolo, dove cerca di spezzare il legame materiale alla ricerca di una nuova forma di esistenziale. Ne nasce una “gravità” non fisica, ma emotiva: “Ma la gravità, lo vedo, / ha un’altra legge […] e nel quotidiano si cerca l’alternativa al passato” oppure “Dicono di esiliarsi, / di abbandonare il letto caldo / dell’usanza ed esporsi / alla frescura del mattino / appena risvegliati”. Al vento e all’aria, elementi ancora più presenti ed importanti in questa sezione, sono associati spesso riferimenti anatomici ben precisi per descrivere la capacità e la resistenza del corpo al sostentamento di eventi drammatici o del cambiamento.
«Ma ora, / quale esilio, che assenza essere dove si è!»: le parole di Pedro Salinas introducono la terza e ultima sezione. L’autrice sceglie ancora una volta versi ben mirati e concreti rispetto al suo viaggio. Ci troviamo in uno spazio esistenziale paradossale: essere dove si è, eppure sentire assenza. Si tratta forse di un esilio interiore, una dislocazione emotiva in una stasi apparente. La sezione Di là dal cancello si potrebbe quindi leggere come una mappa poetica di lucido smarrimento. Il cancello diventa simbolo potente: non una semplice barriera, ma un confine d’identità, un punto in cui si verifica lo scollamento tra l’io vissuto e l’io attualmente percepito. “Nasco nell’attesa, nell’appuntamento / nuovo, insperato. Come nascono / gli sguardi a innamorarsi, / inconsapevoli e sfacciati, / in cerca dell’antica timidezza”. Metabolizzando il passato, e anche le sofferenze – “Cerco un altro dolore / che non sia mio, che non mescoli il suo / grido al pianto della terra” – e nel susseguirsi di testi che, in una forma di predominante lirismo, svelano interrogativi e modi per affrontare la vita al di là del cancello, si entra in una nuova dimensione tanto eterea e impalpabile, quanto lucidamente descritta dall’autrice. In un continuo contrasto si svolge e si conclude una silloge certamente curatissima in ogni sua singola parola ed espressione, in metafore ricercate e mai scontate. Un lavoro certosino e di ricerca poetica che unisce schiettezza contemporanea a suoni e ritmi più classici.

Nota di lettura a cura di Antonio Corona.


Estratti da DOVE ANCORA NON SIAMO NATI


da UN NUOVO TURNO DI VEGLIA

*
Ci sono vite da riguardare,
di fronte a cui tacere in ascolto,
come quando si cerca la sorgente,
chiusi gli occhi, nel fitto
odore del bosco.
Hanno il dono, certe vite,
di sfiorare il peso dei sassi,
di avviare il rimbalzo sciolto
a pelo d’acqua, così
– perché l’onda si allarga

e sorride se c’è un tocco che chiama.


*
Ma cos’è che poi davvero s’impara
se il gesto della notte è sempre lì:
si leva e torna a ripassare il livido
per allenarci alla caduta. Altre
sono le resurrezioni, i massi
da far rotolare, e diverso è il sonno
a cui consegnarsi, lo sperdimento.

O che allieva di paure mi faccio
quando persino il cielo si stordisce
di buio – però poi lava la sbornia
presto, ogni mattino, di nuova luce.


*
Si corre in silenzio, ché il fiato
non basta a dire la fatica
o lo slancio e il traguardo
non è un nome da gridare.
Lasci agli occhi il tremulo
passare delle cose e il vento
dei secondi batte sulle tempie
a ricordarti che ancora manca u
n passo da allungare.
Muti si resta anche quando
l’urlo graffia in gola,
perché non c’è vittoria
che si possa raccontare,
non c’è vittoria
se qualcuno chiama.
Non c’è arrivo
da cui non ripartire
zitti di parole, con tanta storia
ancora da cronometrare.


da DI UN’ALTRA GAVITA’

*
La pace del conoscere si accorda
a quella del non conoscere e insieme
eseguono le note del mio fiume:
una composizione di impennate
e quanti adagi da interpretare.
È il vento a dare il tempo, il vento
che commuove gli spigoli dei sassi,
che amalgama l’acqua e quelle foglie
cedute all’avventura della corsa.
Ma portami alla tua guancia, a sfiorare
almeno l’annuncio dell’innocenza,
di una fine che allarghi queste sponde,
che si faccia estuario di comprensione.

Portami alla tua guancia e sussurra
sottovoce la musica del mare.

*
Funzionavano le sue parole, dritte
sulla pelle come aghi
e pronte a declamare anche la resa,
così puntuali da ridefinire il taglio
dell’incontrovertibile realtà.

S’alzava intanto un fumo,
qualcosa s’accendeva
– non so se fosse dentro a quei carboni –
a disegnare i buchi della rete,
l’uscita d’emergenza o il suo contrario.


da DI LA’ DAL CANCELLO

*
Copro il volto, vedi, per trovarti
presente. È che il buio sa implorare
meglio la luce
e affinare il desiderio, l’udito.
Sa ascoltare, il buio, più di un padre
solerte e calmo la notte
quando l’incubo riappare.
Sa cos’è la leggerezza,
perché attorno il peso delle cose
scivola dagli occhi e finalmente
lascia vuoto il cuore.
Ed è in quel vuoto che ti fai trovare.


*
Il mio inciampo è questo sforzo
di trovarmi schietta, nuda, elementare
nell’agenda degli incontri e dei passaggi,
nell’attesa di ogni bene.
E la caduta brucia l’insolente
inganno. Capirò di nuovo, certo,
che il mio più vero nome
è sulla tua bocca, che non trascorre
nella fiera delle mie parole:
è lì che vive.

Ma nel rialzarmi fa’ ch’io smetta
di capirlo ancora.



Dall’introduzione di Ivan Fedeli
C’è nella poesia di Danila Di Croce un aspetto inconcluso e accattivante. È l’ansia – meglio la necessità – poetica di elevazione e rarefazione; an- sia che si scontra, inevitabilmente, con la realtà delle cose, ma resta, suo malgrado, ancorata al contingente, offuscando così la purezza lineare di un volo che, pur spiccato, si ferma a mezza altezza, per paura o vertigine. La presente raccolta, intagliata in versi di una bellezza rara, metricamente ineccepibili, è con- ferma di questa linea poetica, che acquista vigore e tenuta man mano che il libro si costruisce in sé e da sé. L’impressione è che l’autrice resti un passo indietro, come per un ritardo voluto, o tenda a sparire: lo spazio poetico appartiene in- fatti al divenire, che assume ruolo di soggetto e oggetto di ogni situazione lirica e s’infinita, dantescamente. […]
Nello specifico del libro, Dove ancora non siamo nati si compone di tre parti, associabili idealmente a un trittico medievale, la cui cornice unitaria è rappresentata dalla codifica di un linguaggio altro. […]
Ne deriva una certezza: che il libro abbia forte respiro unitario e viva come organismo pieno, caratterizzato da un’entropia interna capace di indurre meraviglia, stupore. Si auspica, in ultima istanza, che questo breve scritto introduttivo apra ad ulteriori spunti di ricerca; ciò che preme, nello specifico, è sottolineare l’assoluto valore di una voce poetica che ha cura: voce potente e in divenire, che lascia presagire ulteriori sviluppi. E novità, nel panorama di una poesia contemporanea sempre più puntiforme e instabile.


Danila Di Croce – Vive ad Atessa (CH) ed è docente di Lettere nel Liceo Scientifico nella sua città. La sua prima raccolta poetica, Punto coronato (Carabba), è del 2011. Più recentemente ha pubblicato Ciò che vedo è la luce (peQuod 2023), opera vincitrice al Premio InediTO – Torino 2022 e nel 2024 prima classificata al Premio “Vito Moretti”, terza al Premio “Città di Como”, quinta al Premio “San Domenichino” e finalista ai premi “Europa in Versi”, “Versante ripido”, “Guido Gozzano”, e “Città di Latina”. Con poesie e sillogi inedite ha ottenuto numerosi premi e riconoscimenti in importanti concorsi nazionali e internazionali. Suoi testi sono presenti nel Settimo repertorio di poesia italiana contemporanea (AA. VV., Arcipelago Itaca 2023) e su Distanze verticali. Escursioni poetiche sulla montagna (Macabor 2024, a cura di Irene Sabetta).


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