a cura di Rosanna Frattaruolo
1.
I giorni sono bestiali
una pioggia di spilli
un grattare di ossa ormai deboli
contro strade sempre identiche.
Tutti i nervi restano tesi
e urlano.
Vivere è ancora impossibile.
Eppure, se morissi adesso
lascerei troppi gesti
alla fantasia di chi
mi ha visto nascere.
So amare così bene.
Immagino scenari
accarezzo dolcezze.
Ho anche imparato
il segreto delle lacrime.
Confesso tutte le fragilità
in pianti folli
come avessi guadagnato
la libertà di essere una ragazzina
a cui tutti concedono
la delicatezza di restare ferita
da ogni cosa.
Signore, non farmi morire
salvami tutte le volte che potrai.
Quando mi prenderai
non voglio andarmene sul campo.
Lascia che mi stenda
che il sole mi incendi.
Ho sbagliato tanto.
Ho sprecato un’infinità
di attimi preziosi.
Fammi inabissare nella luce.
L’ho adorata fin dal primo momento
in cui alla sua vista
ho urlato tutta la ferocia
della mia fame.
*
5.
L’umanità non può essere salvata
conta solo aver fatto il possibile
aver atteso il miracolo in una notte
che in quel momento sembrava
quella di un giorno qualsiasi.
Non a tutti è data la pace.
Forse, per una vita
basta un momento, l’attimo
in cui una finestra si spalanca
il vento arriva come una bufera nuova
silenziosa e di somma pace
e la luce è un calore
che piove come una carezza.
È importante aver amato
perché non si smette mai
e chi abbia sbagliato non conta.
Quanta fatica ogni abbraccio
quel precipitare in un corpo.
Nessuno potrà mai negare
lo slancio che ambiva all’eterno.
Quando saremo buio
conterà aver cercato negli occhi
proprio perché impossibile.
Tentare era l’unica via.
*
8.
Ho pronunciato sentenze di morte
mi sono divertito
a suscitare il ribrezzo.
Vi prego, non ricordate di me
solo le parole terribili
i lamenti mutatisi in rabbia.
Sono certo, anzi ricordo
preghiere tra le lacrime
e giuramenti sul cuore
nel delirio di un dolore
in cui non ho mentito.
E una volta, in preda
al caos della gioia
a quel tuo sorriso
di promesse
a cui non ho mai creduto
ti ho confidato
di non voler più morire
di aver trovato
in tutto quell’odio
la possibilità
il corpo di Cristo in terra.
Guardami, io ce l’ho fatta
ho sconfitto l’inferno.
*
15.
Molto bello il cielo, non c’è che dire
ma è l’asfalto che gratta contro i piedi il problema.
È grazie a lui se ho le scarpe bucate
quella merda di marca
che ho preso per 20 miseri euro
e la commessa che mi svelava
il mio essere un pezzente
con un sorriso.
La mamma è morta da tempo
senza mai essersi presa la briga
di capire o amare realmente il mondo.
L’hanno bruciata, poverina.
Ogni tanto penso alla sua urna
tutta sola nel loculo, a notte
e mi dispiace.
Abbiamo entrambi sbagliato
dovevamo capire prima
di condividere un sangue
e se Dio esiste
un motivo di felicità.
Mamma è morta
non ha avuto scelta
ma anche lei avrebbe atteso
stagioni più felici, come me.
Spero mi guardi dall’alto
senza pensare di continuo
che suo figlio è proprio un coglione.
Non vorrei accollarle la colpa
per i miei rapporti disastrosi
con le donne.
In verità, quelle ci mettono tutte
qualcosa di loro.
*
16.
Ogni tanto mi dimentico del cielo.
È lì, in alto, più su delle costruzioni medievali
e dei balconi abusivi.
Non credo me ne freghi poi tanto
sto in città e penso a evitare gli scippi
a guardare le donne scollacciate
con i pantaloncini raso chiappe
a precipizio sulle cosce.
Ogni tanto mi fermo a fissare un graffito
forse qualche secondo di troppo
per dirmi sano di mente.
Non capisco mai cosa voglia
dire nessuno di quei ghirigori.
Pensavo fosse linguaggio giovanile
ma non ero un migliore esegeta
quando adolescente sempre instupidito
mi sentivo sovente in calore.
Più che altro mi trascino
e dismetto le coperte invernali
solo quando sudo
da non riuscire più a dormire.
Ogni giorno qualcosa sulla strada
mi ricorda con la sua plastica assurdità
che con la vita io ho poco a che fare
anzi mi è insopportabile.
Se vedo un albero in un’aiuola
mi domando come non sia
già morto soffocato.
Qualcosa nel suo esistere è ottuso
e non sembra reale
– la durezza da minerale mi crea sgomento.
Se incontro qualcuno parlo troppo
ma non ho niente da dire.
Sono solo parole trattenute a lungo
proprio come quando la vescica sta per esplodere.
A ogni passo sento la gratuità del camminare
mi rassegno all’imperativo di restare in linea
fare la dieta
e mi duole sempre qualcosa
un tendine o un piede, un rene
e Google non fa che rivelarmi
che forse il mondo per me
finirà prima del tempo.
Palesemente, sto in piedi
controvoglia, sono decentrato
su una base che tutti trovano normale
e a me dà le vertigini.
Mi fermo contro un muro che corre
dal bar più vicino al cimitero
chiedendomi cosa aspetti Dio
per dire qualcosa di definitivo.
Un aiuto mi farebbe comodo.
*
19.
I baci non sono mai un errore.
Sul culo o sulle mani
bisognerà pure rendere grazie
a tutto ciò che di buono
la presenza fa al cuore.
Ci sono volte in cui la vita
è così lieve che è come scendere
di schianto giù dalla Croce.
Baciare, baciare tutto
l’asfalto caldo di sole
e l’orifizio anale.
Ogni cosa che non è morte
è stupenda.
Un abbraccio, al mattino
ha giustificato ogni pianto
ogni grido sotto la luce al neon
in sala parto tra figli di vergini e puttane
tutti costretti a venire fuori
e cercare una sigaretta
che non sarà più nostra madre
a fumare per noi.
Tienimi la mano
mi chino su un altro
momento insignificante
pensando che è bellissimo.
*
33.
Se qualcosa vorrei
è insinuare la testa
tra il collo e le spalle
e sentirmi svanire
dopo fatto l’amore.
E poi che tu avessi cura
di quel corpo
del suo ultimo inutile calore
che si irradia
senza senso nel mondo.
Pensa alle tue carezze di commiato
su una materia inerte
la cura finale
per una magnifica decomposizione.
Le tue mani sulla morte
l’unica carezza di vita
che io abbia mai sentito
a dire che non è giusto finire
e il piacere non è mai abbastanza.
Poi d’improvviso un ultimo brivido
sulle tue dita quella scarica di elettricità
che a volte rilasciano i cadaveri
lo strazio e lo spasimo
per liberarmi come ogni volta
dal peso di esistere
per essere spirito.
*
36.
Ieri notte ti ho sognata
e, adesso, vorrei sapere come stai
come vive il cancro in te.
Vorrei mi promettessi di non morire
che se crepi tu
anche io mi scopro mortale
e non mi va.
Tra le lenzuola
ci siamo promessi
che la vita sarebbe stata leggera
una chiavata senza peso
solo sudore, umori e sperma
e tanti saluti a quel cornuto
di tuo marito.
Non era previsto il nodulo al seno
la ricerca ansiosa delle metastasi
da parte dell’oncologo.
Ti ho sognata.
Scopavamo e tu dicevi
cose sporche
ridevi.
Eravamo vivi come allora.
Ora, tu non hai capelli
speri che il tempo sia
più lungo dei giorni
e io aspetto la mia catastrofe.
Avevi un culo fantastico.
Mi hai chiuso in una stanza
in cui non ti ho amata
ma potevo fotterti
ed essere felice di farlo.
Ora ti voglio bene
prego per te fino
a essere incapace di parlare.
Preferirei fosse un terremoto
a far tremare così il suolo.
*
45.
Ogni giorno una parola torna
un’immagine che contiene
una dolcezza da ammutolire
da urlare in piena notte
che la Croce non ha più spazio
per ricevere un altro chiodo.
Quanto vorrei dirti tutto
con un’ora di lacrime.
Ho la parola amore
che mi duole in bocca
fino a darmi il tormento
il tumore alla lingua.
Fermerei una che passa
per sussurrarglielo e sentire
il suono rivelare l’assurdità
di ogni sentimento.
Ti amo che potrei oscurare il sole
e guardarlo mentre lustra inutilmente
un’estate di passioni
che non mi riguardano.
Ti amo che vorrei tornassi
fosse pure per uccidermi.
Quel che vedresti nei miei occhi
non lo crederesti umano
mi scambieresti per Cristo
che bestemmia
di essere stato abbandonato.
*
65.
Lei è sdraiata in una stanza
di macchinari spaziali e silenziosi
che la dovrebbero salvare dalla morte.
Forse vede un albero fuori dalla finestra
un brandello di cielo rovesciato
mentre sta lì distesa
e ricorda la vita
quando l’ho scopata io
quando il marito l’ha messa incinta.
Per la donna l’esistenza
sono cazzi di uomini
che fa tirare disperatamente
maschi che se la vorrebbero fare
e bambini da allattare.
Tutto questo squallore
è una strana gioia
almeno quando si sta lì
ad attendere il risultato
di una TAC.
In oncologia si comprende
perché se Dio non esiste
l’uomo ha dovuto dargli
addirittura un corpo
portarlo sulla terra.
Troppo inferno
per non aver bisogno di lui.
Dio, Cristo, la Trinità
una Vergine madre
andrebbe bene qualsiasi cosa
per dare un senso a metastasi
e a questo qualcosa che
con tutte le sue forze
vuole distruggere
saziarsi di spasmi e grida.
La donna è sopravvissuta.
La medicina ha fatto passi da gigante.
La penso viva
e vorrei dire grazie a qualcuno.
Resta la necessità
di trovare la speranza
mentre da qualche parte
un vuoto dentro
si riempie di cancro.
*
TRA LE MANI DI UN SEDUCENTE SERIAL KILLER
Rodney Alcala è attivo tra il 1968 e il 1979, fra la California e New York. Appassionato di fotografia, scatta istantanee a donne e adolescenti, molte delle quali in pose esplicitamente sessuali. È noto per il suo fascino e per aver partecipato allo show televisivo americano denominato The Dating Game, nel 1978.
Non so perché, ma immagino sempre
che tu mi abbia sostituito
con un sadico figlio di puttana alla Rodney Alcala
uno che ti ha abbordata al parco, con una scusa
scattandoti una foto qualsiasi
che tu hai trovato comunque bella
e, poi, ti ha portata a casa sua
e da lì non ti lascia più uscire
per paura che io ti ritrovi.
Lo vedo che ti tortura
che fa scempio di te
che ti ha con quel piacere sadico
che io avendoti amata davvero
non sono mai riuscito a provare.
Non volevo un oggetto
ridurti a un cadavere
dopo averti vista agonizzare.
Nello strano Dating Game che è la vita
noi c’eravamo davvero scelti
e io non mentivo.
Non ero un assassino con il volto fascinoso.
Dicevo delle mie manie, dei crolli nervosi,
delle paturnie e delle giornate no.
Quando ti ho scattato quella foto
non era una scusa per guardarti in volto
e prenderti in trappola.
Era perché sapevo che saresti fuggita.
Gli assassini hanno sempre
bisogno di una reliquia.
Prefazione al libro di Valentino Fossati.
La poesia di Matteo Fais, con Preghiere per cellule impazzite alla sua seconda raccolta dopo L’alba è una stronza come te, è una lirica che si denuda – al tempo stesso rigorosa, di- sarmata – lacerata (e lacerante) dichiarazione d’amore per l’esistente. […] In questa direzione, la poesia di Fais si può dire totalmente affermativa. Non nega. Pressoché esclusa l’idea di un vuoto, del vuoto, proprio in relazione all’insaziabilità vitale, quella da cui nasce, debordando, quello slancio “che ambiva all’eterno”. Ciò che viene affermata non è tanto, o soltanto, una fede nella vita: questa, credendoci come non credendoci, viene piuttosto esposta, e ad esporla – a suo modo a cantarla – è la voce di un essere umano anche stremato, talvolta tradito, ma mai avvelenato dal risentimento.
Questo potenzia la connessione più piena con l’esistente e la voce è netta, si dà senza pudori. […] Non si può dire, in senso stretto, disperata. Non c’è, al fondo, il pessimismo senza rimedio di Pasolini all’altezza di La nuova gioventù. Nei testi di Matteo Fais non si allude a realtà, a forme di vita in qualche modo incorrotte e appartenenti per lo più al passato che vengono come cancellate, rase al suolo in un presente orribilmente cieco e senza un futuro che non sia segnato da distruzione. Nella poetica dell’autore non c’è rifiuto, intellettuale, morale, del presente; delle realtà presenti e delle loro intrinseche, si è detto, possibilità. Anche dove non mancano ingiustizie e squallori di ogni ordine.
Non domina il rifiuto, piuttosto l’oscillazione, come nell’idea e nella ricerca del senso. Da un lato la tentazione a sospendere la sua ricerca, la vicinanza alla resa rispetto alla sua improbabilità, o meglio, imprendibilità; dall’altro l’inattesa apertura a momenti di epifania, di rivelazione, per quanto minimali; epifanie diurne (“Non a tutti è data la pace. / Forse, per una vita / basta un momento, l’attimo / in cui una finestra si spalanca / il vento arriva come una bufera nuova / silenziosa e di somma pace / e la luce è un calore / che piove come una carezza”) o totalmente notturne (“La notte è sporca in città / sa di piscio da birra / e urla che si spengono nel silenzio generale / di ronfare trapassato di barbone. / Eppure è bellissima./ Il lampione anche se non lo rivela / ha un senso”, “La notte adesso ci appartiene / ed è tutto nero. / Anche i fari delle macchine sono solo lontananza.”), ma alla fine con la stessa valenza. […] Matteo Fais è un poeta che si sporca, si infanga con la vita, mai distaccandosene, sempre guardandola in faccia. Non la affida ad un codice poetico trasfigurante, non cerca facili mediazioni. L’unico desiderio, semplicemente, disinteressatamente, è viverla, viverla prima ancora che conoscerla, nella meraviglia e nella nefandezza, e dire, alla fine, anche la fame di bellezza che non diminuisce (anzi) all’approssimarsi dell’oscurità: “L’ultimo giorno prima di cedere / e abbandonarmi all’inverno / mi sono seduto sulla riva / a rubare tutto il mare / che gli occhi di un uomo / possano portarsi via / in un mattino.
Matteo Fais è nato a Cagliari, nel 1981. Laureato in Filosofia, ha scritto i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde, Storia Minima (entrambi per Robin Edizioni), Le regole dell’estinzione (Castelvecchi) e la raccolta poetica L’alba è una stronza come te (Delta 3 Edizioni).





