a cura di Rosanna Frattaruolo

Ivan Fedeli della poesia dice

Credo che fare poesia oggi sia una sorta di rivoluzione silenziosa contro la velocità e il segno dei tempi: la poesia stessa, dunque, assume carattere oppositivo nei confronti della realtà che ci circonda e, proprio per questo, ritengo che in sé siano attivi, pur nella loro latenza, i requisiti etici per leggere il contesto contemporaneo secondo il principio della lentezza e dell’indagine.
Lentezza, per la necessità di misurare l’intorno nel suo barlume di umanità; indagine, proprio in quanto lente che fornisce spessore agli aspetti labili di una società che, per sopravvivere, deve porsi ai margini, svestirsi dell’apparenza e ritrovare il senso del rapporto con l’altro. Per questo motivo penso sia necessaria una narratività interna alla poesia, capace di restituire a chi scrive e a chi legge, per proprietà transitiva, una sorta di attenzione anti-epica ai nomi, ai luoghi, alle stesse cose che ci vedono vivere e raccontarne l’intimo segreto, l’essenza.
In merito alla mia personale produzione poetica, il tentativo specifico dell’ultimo decennio, o forse più, è stato quello di raccontare il limite, la marginalità, la storia stessa degli inadatti a vivere, i periferici, gli individui di cui non si ha notizia se non per caso, per incontro momentaneo: credo sia questa la periferia visiva e percettiva in cui si restringe il campo d’indagine, a partire da “Campo lungo” (puntoacapo editrice 2014), fino a “La gioia elementare” , fresco di stampa per i tipi di Luigi Pellegrini Editore. Sul piano formale ho sperimentato la flessione e la rottura sintattica e sonora dell’endecasillabo, verso che permette l’avvicinamento a una forma di pseudo-narrazione in versi; l’uso della strofa lunga, poi, determina la compressione dell’occasione poetica in una sorta di armonia circolare dove tutto accade. Si vedano in merito, a seguire, alcuni testi.

La sua poesia ci dice

Poesie tratte da La gioia elementare, Luigi Pellegrini Editore, marzo 2025, (pp. 26 - 39 - 40)

La vita? Ma viverla proprio tutta
come a non averne mai troppa mai
abbastanza da tenerla a bada
lei i giorni di settembre i film di notte
il cielo. Ci sarà tempo? Per noi
intendo non altro mentre leggi
racconti d’amore e io non so parole
da dire se il silenzio se il ricordo
basti a dare ordine alle cose
a figli e maglie a collo alto a rimedi
per l’inverno. Se ne va così questa
stagione da trasloco senza dare
disturbo resta la malinconia
dei tetti due tre rondini tardive
qualche numero in agenda dovesse
poi servire quando forse chiameremo
e qualcuno qui risponderà buongiorno
non c’è male tanti auguri per Natale.

*
Dimmi del cielo di viale Adriano
così immobile imperiale al tramonto
mentre scema di luce e la città
diventa niente. Scivola lontano
dopo i lampioni al neon e la Lidl
che campeggia tra parcheggi e carrelli
quando fa malinconia la sera
e le donne hanno un silenzio borghese
dentro dopo la spesa e il pensiero
ai mariti alla prostata che va.
Più in là il silenzio operaio di chi
scende dal tram qualche finestra accesa
dai palazzi magri. È marzo anche qui
te ne accorgi dall’odore del traffico
dalla pizzeria cinese d’angolo
piena di voci. Vita da rubare
anche questa pensi aprendo il portone
poi il vociare al primo piano di gente
in affitto e il soffritto sulle scale
che si sente salendo, inesorabile.

*
L’uomo della panchina toglie forfora
e pensieri dalla giacca guardando
il cielo. Crede alle strade di qui
mentre incrociano gli alberi che fanno
bella la Barona anche a novembre e
nei parchi c’è un’idea di città
che respira. Biascica un po’ in dialetto
sognando la signora del piano
sotto e qualche anno di meno per sé
così si inganna il tempo ti dice e
scrolla le spalle per sentirsi vivo.
Essere lui per un soffio uno sbaglio
di nome prima che sparisca più
in là dopo il giro dei tram e i cani
al guinzaglio in un giorno che va senza
sapere di noi. Basterebbe forse
a dargli un senso un indirizzo almeno
mentre chiedi dell’esistenza se
da qualche parte si resta davvero
o si scivola lentamente altrove
come nella poesia di Raboni.

Dicono di lui e della sua poesia

Estratto dalla prefazione a La gioia elementare, Luigi Pellegrini Editore, 2025, a cura di Cristina Daglio.
[…] Fedeli descrive e riscrive, attraverso le lenti del proprio sentire, il mondo come uno scrigno che custodisce una bellezza della quale forse non siamo partecipi, ovvero la vita comune delle persone comuni in un mondo che grida “siamo fuori tempo massimo”. Lo fa senza retorica. In ogni singola poesia Fedeli crea un quadro perfetto, equilibrato e formalmente ineccepibile, nel quale l’osservatore, il soggetto e l’oggetto dell’azione si mescolano e comunicano tra loro quasi a voler essere un unico caleidoscopio della situazione. In questo l’autore resta fedele alla propria visione e alla poetica che lega le sue ultime raccolte: il reale e il tangibile divengono anche pensiero e strappo con l’essere umano in un tempo e in uno spazio che, paradossalmente, sono sempre più piccoli (ipervelocità e iperspecificità) e più grandi (il quartiere che diviene mondo).
[…] La poetica di Fedeli indaga, in tal modo, le vicende banali di tutti i giorni (da un trasloco, a uno sguardo sul Lambro, alla minima situazione insomma), e tende con ostinazione alla ricerca di una luce opaca o ai dettagli capaci di svelare un barlume di bellezza che ci permetta di definirci umani, non omologati, vivi. Lo sfondo è spesso Milano e il suo hinterland (già fortemente rappresentato in precedenza) nel solco, forse, della migliore linea lombarda che richiama Raboni ed Erba; qui, però, sono tracciabili riferimenti al sogno, o meglio alla trasfigurazione del quotidiano. […] Ne deriva un canto in tono minore verso ciò che si cela nella profondità delle abitudini. Si potrebbe quasi ipotizzare, in ultima analisi, che Fedeli sia poeta orizzontale, proprio perché, con il suo sguardo, scandaglia la realtà ad “altezza occhi” ma forse sarebbe riduttivo: la capacità di cogliere le trasparenze e le opacità porta Fedeli a interrogare le profondità delle questioni umane, fino a lasciar presagire il senso del nostro vivere oggi, pur per poco, giusto il tempo di vederlo andare altrove.

Ivan Fedeli e i suoi poeti

Parlare di punti di riferimento in poesia, “quelli che influenzano” insomma, è difficile. La poesia accade per contatto, contaminazione, gemmazione: tutto è naturale, consequenziale. Certo, tanti sono i debiti, le suggestioni, i modelli: Raboni, innanzitutto. Poi Umberto Fiori, Erba, in parte Milo, ma sembra tutto così scontato. Sicuramente maestri sono stati, nel mio specifico caso, due poeti in particolare: Tiziano Rossi ed Eugenio De Signoribus. Ma scriverlo è fare torto agli altri.
Da Dante a Montale, a Pasolini. Chi scrive è sempre il risultato di un percorso lungo di ricerca, serietà, senso etico. Ed è essenzialmente, meravigliosamente se stesso.


In dono a Ivan e ai lettori di Il Tasto Giallo, di Eugenio De Signoribus, Nello spiazzo da Trinità dell’esodo, Garzanti, 2011

Nello spiazzo nello spiazzo lungo il sentiero 
dov’egli s’apposta alla tenebra
in quel palmo di terra e di cielo
è il teatro di verità

l’esistente è dentro un clamore
che lo storce lo sfibra lo stana
sente la lama che tocca la gola
e si dibatte e urla di nooh!…

– Ora férmati, chiunque tu sia,
o punitore o violento dio!
non c’è bisogno del sacrificio
è più necessaria la pietà!… –

Ivan Fedeli (1964) insegna lettere e si occupa di didattica della scrittura. Ha pubblicato diversi percorsi poetici, tra cui Dialoghi a distanza in “Sette poeti del Premio Montale” (Crocetti), Virus (ed.Dot.Com.Pres.), A margine (Ladolfi editore) e, per i tipi di puntoacapo editrice: Campo lungo (2014, Premio “Casentino”), Gli occhiali di Sartre (2016, Premio San Domenichino, Premio “Vent’anni di Atelier”), La meraviglia (2018, finalista Premio “Caput Gauri”), La buona educazione (2020), Cose di provincia (2022); nel 2025 La gioia elementare, Luigi Pellegrini Editore. Cura la collana “Altre scritture” per puntoacapo editrice.

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