Il tuo volto disegna il mio” di Piera Giordano: narrazione poetica di incontri e scontri generazionali

di Rosanna Frattaruolo

Il tuo volto disegna il mio, edizioni I frombolieri, Genesi Editrice con la prefazione affidata a Silvia Rosa, è l’ultima raccolta poetica di Piera Giordano.

E’ un libro che traduce in poesia l’amore tra una bambina nel suo divenire donna e la sua nonna Teresa; un amore vissuto nella quotidianità tra pranzi e merende da preparare, capelli da intrecciare, nell’interazione tra forze generazionali diverse, ma complementari: «io sono questa fontana / e tu quest’acqua / che mi scorre dentro» (p. 102), «ero la tua terra / eri la mia aria» (p. 84).

L’ambiente della narrazione poetica è rurale: lo si percepisce dalla descrizione degli ambienti, degli oggetti utilizzati che palesano uno stile di vita “semplice”. Particolare l’assenza di animali. Una scelta precisa o una strana omissione che nello spazzare il cortile non ci sia stato neppure l’attraversamento di una formica, di una lucertola?

La parola poetica è, per l’autrice, rimedio al tempo che, fluendo, slava la nitidezza dei ricordi; è il fuoco che ne tiene accesa la fiamma. Potremmo, citando Ugo Foscolo, parlare di funzione eternatrice della poesia (p. 102) e ciò che Piera Giordano vorrebbe rendere eterni sono il volto e la gestualità affettuosa di nonna Teresa, consapevole che quel volto disegna ormai il suo.

Il linguaggio, prosastico e colloquiale, fluisce senza inciampi linguistici. La semplicità della parola è in armonia con la necessità di essere compresa dalla nonna che, quasi sempre, è il tu a cui si rivolge l’autrice.

Il libro è diviso in sei sezioni, ognuna delle quali ha una precisa vocazione introdotta dai titoli delle stesse. La precisa collocazione argomentativa dei testi all’interno delle sezioni potrebbe dare parvenza che queste siano nate prima degli stessi testi, quali contenitori definiti dentro i quali infilare, già pronti, i testi che calzano alla perfezione.

Non come esercizio poetico-linguistico, ma per lo sviluppo di alcuni temi ispirativi, i testi evocano Le occasioni di Montale.

La memoria è il fulcro su cui poggia l’intera raccolta: Piera Giordano descrive occasioni, come le definirebbe Montale: una passeggiata a Sant’Elisabetta a giocare a guardie e ladri diventa pretesto per lasciarsi invadere da ricordi che inevitabilmente la riavvicinano alla nonna che giungeva «con la brocca», mentre lei trangugiava «tutto d’un fiato: / l’acqua, il piazzale, le colline, / i sentieri, la pianura» (p. 100); oppure, la fontana all’inizio della strada di Filia (p. 102)che riaccende il ricordo e assieme il desiderio: «Vorrei che fossi qui». È solo un attimo, una breve pausa. Ritorna l’acqua impietosa che, premendo con forza e spingendo via le mani, esce fragorosa e costringe l’autrice alla realtà, alla consapevolezza della perdita, ma anche alla necessità di mantenere vivo il contatto con Teresa.

Ma l’acqua è anche il rigagnolo che fuoriesce dall’annaffiatoio e lava il ricordo, riportando l’autrice in un cimitero, da sola a bagnare i fiori (p. 101). Dunque, l’acqua, metafora di vita, ma anche del fluire del tempo che logora ogni cosa e, citando Montale, come forbice crudele, recide e separa da noi i volti delle persone care.

La leva è l’amore, strumento di elevazione dell’uomo, che traduce questo libro in una dedica d’amore a questa donna-angelo che incarna paradossalmente valori di salvezza e di rettitudine, e che si traduce inevitabilmente nella sensazione di perdita irreparabile. Un amore che riaffiora dal passato, trasalì dai «vasetti di prugne / cotte per ore, rigirate / con il cucchiaio di legno […] per farcire / le sere mute di gennaio», per far divenire il cuore più rosso, per far bruciare il silenzio della notte (p. 72); un amore riportato alla memoria della poeta attraverso i «passi d’albero / che s’allargavano in radici / e rami che stringevano in abbracci» (p. 84).

Infine gli oggetti: il sentimento di amore affiora profondamente, ma con sobrietà, attraverso la descrizione di oggetti e fatti semplici, propri della vita quotidiana. Il gesto diviene non solo atto funzionale al raggiungimento di un obiettivo – spazzare il portico per pulire il giorno, piantare il basilico per prendersi cura della vita che cresce (p. 28) – ma atto di interazione sociale con gli altri: il basilico profumerà il pranzo e il chiacchiericcio di famiglia, lo zappettare «tra insalata e carote / a togliere erbacce» diviene metafora della vita e strumento di insegnamento per la bambina, nel desiderio di vederla germogliare (p. 29): «mi vuoi stirata, ordinata / piegata in un cassetto, / conservata con l’amore / dei sacchetti profumati / al cambio di stagione. / Devo essere senza strappi / in questo mondo / da rattoppare» (p. 35).

Nella frescura dei tuoi occhi è la sezione dello sguardo, attraverso cui si sviluppa il dialogo tra la piccola Piera e la nonna: gli occhi attenti della bambina intenti ad osservare i gesti lenti della nonna mentre, scrive l’autrice: «prendi il pentolino» e «mi passi la tazzina / e ti curvi sull’istante, l’unico / che si può vivere davvero» (p. 17), mentre «spazzi il portico» e «rendi nitido il pavimento / per i passi del nuovo giorno» (p. 25); gli occhi della nonna che, cercando in Piera una diga per il suo pianto, a pranzo «si turbano di pozzanghera» (p. 18) e negli occhi della giovine donna «vorrebbero […] la calma dello stagno / nella penombra del bosco, / […] invece incontrano / un torrente / rumoroso e assolato» (p. 19); gli occhi della nonna attraverso i quali Piera cerca «la frescura di un luogo segreto» dove incontrare se stessa: «un’altra me – scrive – […] diversa dal mio essere […] sono io che piango te».

Teresa era di una generazione che usava poco la parola – si rubava il mestiere con gli occhi – e a volte era sufficiente un’occhiataccia come monito, rimprovero: «Le parole erano vapore / si condensavano sui vetri, / formavano strisce di lamenti / che scivolavano lungo la finestra» (p. 91). Lo sguardo, dunque, o la parola occhi, usati esplicitamente e non, in forma dialogante di interazione, nell’intenzione di insegnare e nel contempo di imparare attraverso l’attenzione al gesto: «Mi vuoi come te / con il fare / e non il vuoto / di stoviglie svogliate / parole sbriciolate / lasciate sul tavolo» (p. 32).

Ognuna cerca negli occhi dell’altra ciò che non ha. Una parola ricorrente nella sezione è desiderio; è così che Teresa, accanto alla consapevolezza di quanto sia fragile «la corolla in equilibrio sullo stelo» (p. 26), al monito «anche voi sarete vecchi» (p. 31), respira il desiderio di risbocciare ragazza e la vanità femminile di indossare un vestito nuovo. La poesia a p. 22 si conclude con due versi esaustivi: «è che vuoi ancora vita / come la voglio io».

Una domanda precisa chiude l’ultimo testo della prima sezione: con tutta quest’acqua, che è metafora di vita e tempo, «c’è un porto sicuro / dove attraccare / per sempre?». In risposta, Giordano introduce nella sezione successiva la paura: della tempesta in mare, della morte che potrebbe portare via la mano che, scrive, «cerca il mio volto / per trovare il suo» (p. 38). Il fil rouge è l’elemento naturale connaturato alla memoria: l’acqua – già presente Nella frescura dei tuoi occhi: negli occhi a pozzanghera e nell’acqua di nuvola (p. 18), nel gesto di riempire solchi «come parole in fila / senza errori» (p. 29), nel gesto di innaffiare gerani e basilico.

Dalla liquidità dello stagno e del torrente (p. 19) si giunge Sul ciglio dell’acqua – questo il titolo della sezione introdotta da un frammento significativo di Dall’oscurità dell’infanzia di Eeva-Liisa Manner che ci fa intuire quel che vi troveremo: «La nonna divenne poi più fragile / trasparente come la foglia le cui nervature sono vuote». L’autrice non è mera osservatrice ma interagisce sempre con Teresa e anche qui il rimando è immediato al testo Non recidere, forbice, quel volto di Montale: come Montale implora di non cancellare dalla memoria il volto dell’amata, Giordano teme che l’agitarsi dell’acqua impedisca di tenere salda la presa della mano di Teresa che, come foglia, sarebbe in balia della corrente «mentre – lei scrive – la vorrei salda / al ramo oscillante / del mio presente». La consapevolezza del naturale fluire dell’acqua, del suo trascorrere si scontra con quella di non riuscire a essere curva sicura di porto (p. 39)e con l’urgenza insita nel desiderare di vivere ancora. E così, alla difficoltà della malattia e della vecchiaia, l’autrice tenta di mettere ali di rondine, così da «raccoglie[rne] la frescura / in piccole gocce e poi è cielo che spazia», anche versando nella liquidità della vita qualche rimedio – un sonnifero o una compressa per l’emicrania, contro la malattia e gli acciacchi della vecchiaia: la mano tremante, il fuoco di Sant’Antonio che mangia il petto (p. 39), l’emicrania a cui Teresa non si arrende, il respiro rumoroso.

Ma Teresa si lascia «andare nel letto, / luna che scivola nel mare» alla paura «perché la notte / ha il verso della grotta / mentre vuoi ancora le parole / di chi ti vuole nel sole» (p. 44); poi, sotto lo sguardo di Piera che la vede «aprire l’ombrello / sotto l’organza di gocce, / andare per la strada / un poco curvata», la donna svanisce con passo lento (p. 46).

Dopo il commiato alla nonna (p. 48), la poeta continua a cercare la genitrice nel sonno; ma anche di giorno si mette in attesa e diviene «mare che […] attende».

Particolare attenzione merita l’uso dei tempi verbali. Nell’estremo tentativo di attualizzare il passato, rivivere, attraverso la scrittura, la quotidianità con Teresa, nelle prime due sezioni l’autrice si rivolge alla nonna adottando il tempo verbale presente. Nell’ultima poesia, seppure dubbiosa, la nipote esprime il desiderio di sedersi accanto alla nonna, senza la paura di rompere il guscio.

In Un desiderio ancora di mattino l’uso del tempo verbale al passato e la particolarità di alcuni episodi giovanili di Teresa, inducono a pensare che non siano ricordi personali dell’autrice – come nelle due sezioni precedenti – ma rielaborazioni poetiche di episodi raccontati da familiari o traduzioni in versi di vecchie fotografie. Si delinea la figura di Teresa, non solo nonna di Piera, ma figlia di un uomo tornato dall’America senza aver avuto fortuna (p. 55), ragazza innamorata «seduta / sulla lambretta, con il foulard annodato / appoggiata alla schiena del nonno» (p. 54), donna che ha partorito da sola e che ha combattuto la guerra crescendo due figlie (pp. 58-59), sposa e origine di vita per la discendenza: «quel giorno / di cui non ho traccia / in cui ti unisti con il nonno / e fu per sempre, fin oltre la morte / e per tutti noi / fu vita» (p. 57).

L’essenza di Il segreto delle cose è racchiusa negli oggetti. Non c’è sempre un’intenzione montaliana di correlativo oggettivo nell’uso poetico degli oggetti, ma sempre v’è relazione sentimentale tra Piera ed essi, che, a volte, diventano metafore di vita – come nel testo di p. 78 in cui lo sferruzzare diventa arte del rammendo perché quando «ci si perde, / basta riprendere / il punto. / Importante, però / è chiudere le maglie»; altre volte, semplicemente, sono strumenti che hanno riempito la quotidianità e che sono diventati cimeli atti a riportare in vita la nonna nella sua gestualità: «ti ritrovo nell’accadere del giorno – scrive Piera a p. 76 – con la tattica / segreta delle cose / ne vedo la musica / anche se non la posso / stringere».

I morti esistono / non sono mai partiti sono i versi di Elisa Biagini che introducono l’ultima sezione dal titolo sinestetico Nel bagliore della tua voce. Il lettore è condotto verso una connotazione spirituale della nonna che l’autrice, ormai adulta, incontra nella notte, scrivendo (p. 106): «Ti sto vicina senza misura». Dopo averci donato il dolore per la perdita, Piera Giordano si riappacifica con la vita e colma la mancanza fisica con i bagliori della voce di Teresa che «illuminano gli angoli della casa / per vedere nel buio» (p. 111).


Estratti dal libro

I tuoi occhi sono acqua
si turbano di pozzanghera
mentre a pranzo mangi lacrime:
la vita è carta velina
ma tu vuoi intagliare i giorni
perfetti, solidi a tuo gusto
e io ti sembro acqua di nuvola
leggera al vento
liquida nel tempo
invece mi vorresti diga
per il tuo pianto

*
Il fuoco di Sant’Antonio 
ti mangia il petto, 
un rodere di mare con risacca 
e tra una risacca e l’altra cerchi 
la calma piatta su cui lasciarti andare, 
i tuoi occhi mi chiedono conforto 
ma non so come aiutarti 
sono così rocciosa 
invece di essere curva sicura di porto.

*
A luglio si saliva a Sant’Elisabetta. 
Noi giocavamo a guardia e ladri,  
correndo con il cielo 
lungo il pendio della montagna. 
Lassù non c’era elettricità 
né telefono e nella casa in affitto 
solo un rubinetto all’ingresso.  
Si beveva l’acqua fresca 
della fontana.  
Tu arrivavi con la brocca, 
io trangugiavo tutto d’un fiato: 
l’acqua, il piazzale, le colline, 
i sentieri, la pianura. 
La vita era un bere a garganella.

Piera Giordano è nata a Castellamonte (TO) dove vive e insegna materie letterarie presso il Liceo artistico della cittadina. Laureata in Filosofia all’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato in poesia: Aria Ossigenata in Il peso del vento, CFR – Epos, 2012; A teatro c’è lo spettacolo delle nove in Retrobottega, idem 2012, Divieti di viaggio in Forme della Terra, manifatturatorinopoesia, 2010; Dove le radici del mio cuore, L’autore libri Firenze, 2003; e per Ananke:Ventiquattro scatti + uno in A corpo libero, 2008; Dimore dell’anima, 2005; conTEsto, 2004, in collaborazione con Sandra Baruzzi e Anna Tabbia. Vorrei essere come sono, iQdB edizioni di Stefano Donno, 2018, è il suo primo romanzo, 1° premio Europa in versi nel 2017. Nel 2022 pubblica Il tuo volto disegna il mio, Genesi, dignità di stampa al Premio I Murazzi 2020.


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