a cura di Rosanna Frattaruolo

Daniele Gigli della poesia dice

Che è una preghiera alle cose affinché ci si svelino.
Che è un’operazione di pulizia della lingua.
Che è un esercizio di contemplazione e di precisione.

La sua poesia ci dice

Da Lascaux, in Fuoco unanime (2015. 2016), frammenti 2, 3, 4

La notte, poi, veniva a visitarlo il dio
e fuoco e vampa e cerchi nella terra. Si chiedeva
a quale sesso, si chiedeva –
senza chiedere, nel tempo aperto, al soglio della caccia.
«Cielo e terra, cielo sulla terra e sotto terra» urlava
e dalla grotta un pianto né di bestia né di donna
ne contava i segni.

Soltanto nella danza. Il fuoco preso e reso,
il fuoco acceso al legno, i sassi a schermo, e maschi
e femmine legati e sciolti, in danza,
in successione: mani e cosce, mani e mani, grida e mani
al dio, alla notte e al giorno, al tempo sempre uguale
e sempre nuovo.
Nella danza.
Aperto il cielo e il cuore, aperto il petto del nemico, il cranio,
inoculata la polpa del cervello, l’anima, la forza.

Così pensava, o credeva di pensare e pensavano per lui
la carne e il sangue, l’ira e i tremiti di noia.
Non senza chiedersi, non senza chiedersi senza saperlo chiedere
che cosa fossero quei suoni quelle rocce in gola tra un vagito e un altro,
com’è che avessero una voce, un – come dirlo – un senso.

***
Dice il Signore «il sangue va sgranato sulle porte, a scudo,
che difenda me da me, il mio popolo dall’ira».
Il sangue cola e macchia, disegna le figure oltre gli arbusti,
dove si spinge il branco non più branco
e ancora non famiglia.
«Il sangue
sgrani a scudo sulle porte» vomita il Signore
la sentenza «a separare e scegliere
– con me, contro di me –
chi infetta l’aria della storia con il proprio cancro».

(Sembra più sola ora la terra, più sicura.
Ma a quale sangue, a quale storia chiama?)

***
Lì nella stanza dove si respira (fuori è morte,
fuori è caldo e morte).
Dove sul muro i tori
sgroppano simmetrici la danza della foia
e i cervi osservano, camminano per contrappunto spazi usati.

Lì dove il giorno è morte, caldo e morte
e dove il sole fuori batte e spacca e screpola la terra,
– la terra ampia e terribile, la terra vasta –
lì gli occhi fissano la voce, afferrano ciò che di ieri può restare,
sassi e terra, sangue e sperma e caccia di preghiera, caccia grossa,
all’uomo, al Dio.

Dicono di lui e della sua poesia

Alessandro Rivali, da Gigli, l’uomo e il bivio continuo tra morte e grazia, recensione a Di odore e di generazione, «il sussidiario», 18 gennaio 2020 (https://www.ilsussidiario.net/news/letture-gigli-luomo-e-il-continuo-bivio-tra-morte-e-grazia/1974517/).
[…] Accelerare la coscienza: è la sensazione che si prova entrando nelle nuove poesie di Daniele Gigli, Di odore e di generazione (Fara, Rimini 2019). Un libro terso e dolente, di contrasti tra luce e ombra, ma anche il bilancio di una vita. […]
Di odore e di generazione è un poema unitario, verticale interrogazione sulle “cose ultime”. E sulle azioni che possano trasformare i nostri giorni in esistenze autentiche: “è adesso che si sceglie/ vita o morte, speranza o perdizione”.
La meditazione di Gigli non fa sconti, è un rasoio, che s’innesta nella corrente dantesca della nostra poesia: gli interessa l’“ora di tutti” più che l’“ora del singolo” e che scrive “mentre s’invorticano i giorni/ e crepita la storia” e “dove mostra il conto il male, il male che dilaga”. Il poeta ingaggia un corpo a corpo con la morte, che sembra Signora del campo della storia, come nel Settimo sigillo di Bergman.
C’è il sangue delle migrazioni contemporanee […]. Ci sono paesaggi assiderati abitati da automi, oppure da “pitocchi, ladroni, tossici ammalati e scorticati” […]. Ci sono anime scolpite dalla solitudine. Eppure, in questo oceano livido, resta l’uomo con il suo fascinoso mistero che può rispondere alla grazia, magari improvvisa e immeritata. Come quella che incontrarono i due discepoli dal cuore spezzato sulla strada di Emmaus […].

Alfredo Rienzi, da Il fuoco e il desiderio: la luce nell’ombra in Fuoco unanime di Daniele Gigli, «La Clessidra», anno XXIII, n. 1-2/2018 (ottobre 2019).
È un fuoco fisico e metafisico, presenza ustoria e perenne, anagogica luce, vero axis mundis, il «fuoco preso e reso», nel circolo tra «cielo e terra, cielo sulla terra e sotto terra», cantato da Gigli in Fuoco unanime (Raffaelli Editore, 2015): è sia la scintilla che nel microcosmo accende il senso stesso dell’umano, in nuce nella scimmia di Lascaux magnificamente rievocata (p. 55), sia la luce che sostiene l’essenza sacra degli «uomini/ di tutti i secoli, negli anni e nelle latitudini» (p. 27).
Gigli ci dice nitidamente che è una fiamma «unanime» ed è «del desiderio»: è cioè la quintessenza stessa della natura umana, de-siderata, cioè privata del cielo, data alla terra. Temporaneamente, secondo il poeta, che dapprima chiede «avremo un corpo luminoso un giorno? » (p. 66) ma, come a distillare la risposta che sostiene tutta la raccolta, poi sentenzia: «i corpi ai corpi, le anime al Signore» (p. 67) e «Àlzati, rivèstiti di luce» (p.22). La trasposizione narrativa di questa doppia natura, pilastro – per semplificare – di tutto il pensiero mistico, si avvale di famiglie lemmatiche parallele e
contrapposte, anche sul piano simbolico: da una parte «fuoco»e «luce» (declinata in plurime aggettivazioni e accostamenti, e «vampa», «ardore», «lampo»), dall’altra «pietre» (e «rocce», «sassi», «ossidiana», «cemento») ed «ossa», (e «corpo», «carne», «sangue», «sperma»). Un estremamente significativo «pietra-luce» (p.22), con la potenza di un sigillo, sentenzia dei sofferti scenari della realtà di materia-spirito dell’Uomo […].

Francesco Napoli, da Il fuoco di Daniele Gigli, postfazione a Fuoco unanime, edizione 2015, pp. 89-91.
[…] Afferma Pound in L’artista serio (1913): “Scriver bene è scrivere con perfetto controllo: lo scrittore dice esattamente ciò che intende”. E Daniele Gigli scrive bene in questo caso? A giudicare dal lungo lavoro di lima al quale ha sottoposto questi versi, con esiti sempre più riusciti, si può rispondere affermativamente. Anche perché Gigli “usa il minor numero possibile di parole”, è sempre Pound a dir così, con una maniacale attenzione al lessico […]. E sempre Pound, nel medesimo saggio, poco dopo afferma che il buon poeta “cerca di comunicare col lettore con la massima prontezza possibile”, dove prontezza non è necessariamente immediatezza o chiarezza lineare. Tutt’altro: basti allora osservare il continuo cambio di ritmo e di verso che giostra tra uno stringatissimo andamento quinario e un verso lungo quasi indomabile, strabordante eppure sempre rivelatore di più piedi metrici allineati e nascosti lungo la medesima linea […].

Daniele Gigli e i suoi poeti

Tanti quelli con cui sono in dialogo, ma quelli davvero decisivi stanno nelle dita di una mano o poco più.
A diciott’anni Baudelaire mi fece capire che si poteva fare musica senza musica e mi spinse dalla scrittura di canzoni alla poesia. A venti, Pascoli e Gozzano raccontati dal magnifico Gian Luigi Beccaria mi mostrarono le delizie della sordina. Un paio d’anni più tardi, sempre grazie allo stesso docente, l’incontro con Caproni, la scoperta del racconto in versi tra arie e recitativi, il libro come un’opera da architettare e rivolta a un pubblico.
Poi la primavera del 2003: Whitman, Giuseppe Conte e la riscoperta che la poesia poteva essere vitalità, gioia, epica, potenza. La calda estate di quello stesso anno – l’incontro con Luzi e quello con Eliot, il maestro di tutta una vita a cui sempre ritorno, anche quando non so di farlo.


In dono a Daniele e ai lettori di Il Tasto Giallo, di Giuseppe Conte, Le stagioni della terra da Le stagioni, BUR, 1988

Ci pensi, non ho mai piantato un albero,
non ho mai avuto un figlio.
Tanto assomiglio al mare,
solitario, sterile.
Né un crespo cipresso, né un salice
umido e lento, né un’euforbia
diramata a delta, né un pesco
né un susino né un melo
ho mai fatto crescere, né un ramo
rosa o candido a marzo, né un piccolo
di uomo.
Come l’onda percuote la riva
senza fecondarla, senza lasciarvi
altro che alghe e consunte radici
così –non lo dici ?- io percuoto
la vita.
Eppure l’ho amata, la
terra, ti ho amata.

Daniele Gigli (Torino, 1978) è archivista documentalista e scrittore.
Amante di T.S. Eliot, gli ha dedicato le traduzioni di The Hollow Men (Gli uomini svuotati, 2010) e Ash-Wednesday (Mercoledì delle Ceneri, 2013), oltre alla monografia T.S. Eliot. Nel fuoco del conoscere, pubblicata con Ares nel 2021. Per lo stesso editore ha curato una scelta di traduzioni da Emanuel Carnevali, Finché Dio ci vede (2023), mentre ancora a Eliot, e a Rodolfo Quadrelli, è dedicato il suo ultimo lavoro, Prima la realtà (2024).
Ha pubblicato quattro libri di scrittura in versi, i più recenti dei quali sono Fuoco unanime (2015, 2016) e Di odore e di generazione (2019).
La sua attività professionale e di ricerca è alla radice dello studio professionale di consulenza Studio Anfortas (www.studioanfortas.org).

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