a cura di Antonio Corona
di LIBERO ALTOMARE
Il passato
Vecchio carillon sonnolento
che riesuma fra tappezzerie sbiadite
e fetore di crisantemi sfatti
ingenue romanze di epoche lontane.
Bigotto lacrimoso che biascica un rosario
di rimorsi,
cero fumigante in eterno
sovra le bare dei giorni perduti,
cinematografia grottesca e scialba
su la tela fluttuante de la memoria.
Povero specchio infranto ai cui frammenti,
i ricordi, ogni tanto ci specchiano
per ripescarvi con un gesto scimmiesco
qualche arabesco di sogno che ci solcò la fronte.
(da I poeti futuristi, 1912)
di CORRADO GOVONI
Il picchio
Chi è, laggiù, quel dottore
che, nel campo di canepa in fiore,
ascolta ad uno ad uno tutti gli alberi?
Sembra, quel fitto martellare,
d'un fantastico legnaiuolo,
che inchiodi tutto il giorno bare
con una furibonda lena, solo
là, tra pezze di canepa e scoppia,
fuggendo via all'impazzata,
in un'atroce funebre risata.
(da Poesie elettriche, 1911)
di GIAN PIETRO LUCINI
Per chi?...
Per chi volli raccogliere
questo mazzo di fiori selvaggi;
stringerli in fascio nel gambo spinoso ed acerbo?
Tutti i fiori vi sono di sangue e di lagrime,
raccolti lungo le siepi delle lunghe strade;
dentro le forre delle boscaglie impervie;
sui muri sgretolati delle capanne lebbrose;
lunghesso i margini che lambe e impingua
il rivolo inquinato dai veleni,
decorso, dal sobborgo, alla campagna.
Tutti i fiori vi son, che, pei giardini urbani e decaduti,
tra le muffe ed i funghi, s’ammalan da morirne,
e li altri che sboccian sfacciati e sgargianti,
penduli al davanzale d’equivoci balconi meretrici:
tutti i fiori cresciuti col sangue e colle lagrime ai detriti.
Per chi io canto questi fiori plebei e consacrati
dal martirio plebeo innominato,
in codesto sdegnoso rifiuto di prosodia,
per l’odio e per l’amore,
per l’angoscia e la gioja,
e pel ricordo e la maledizione,
per la speranza acuta alla vendicazione?
Ed è per voi, acefale ed oscure falangi,
uscite da un limbo di nebbie e di fumi,
tra il vacillar di fiamme porporine, in sulla sera,
dai portici tozzi e sospetti di nere officine?
ed è per voi, pei quali non sorride il sole,
schiavi curvi alla terra, che vi porta,
e rinnovate al torneo dell’annata,
ma non vi nutre, vostra?
ed è per voi, pallide teorie impietosite
di giovani, di vecchie e di bambine
inquiete tra la fede e i desiderii,
tra la tentazione della ricca città
e il pudor permaloso della verginità?
Per chi, per chi, questa lirica nuova,
che bestemmia, sorride, condanna e sogghigna,
accento sonoro e composto dall’anima mia,
contro a tutti, ribelle e superbo,
in codesto rifiuto imperiale d’astrusa prosodia?…
(da Revolverate, 1909)
di GESUALDO MANZELLA-FRONTINI
Sala anatomica
Un profumato autunno di tuberose,
un acre odore d' acido fenico...
La sala anatomica avvampata
dalle ultime fiamme d'un vespero di viola e di croco.
I tesi cadaveri squarciati
su le tavole chiazzate di sangue e di grumi.
Un vecchio dall' occhio schizzante,
dal torace sottile,
e su la glutine dell'occhio fetente le mosche
importune a cantare liete.
Uno straccio di vecchio giornale
- la nota mondana -
turava la miasmatica bocca
d' un tisico
sul quale filava l'esperta traccia d'un bisturi.
Cedette lo sterno
fremettero i consunti lividi polmoni
putrefatti
all'urto.
Sull' ultimo tavolo,
nella penombra
una donna dalle anche spiccate,
dai flosci seni rattrappiti
avea il ventre colante materia:
O perché, perché mai, divina creatura,
L'immagine vostra improvvisa
balzommi dinanzi nella bianchezza molle
delle carni
disvelando improvvisa la freschezza
della tua vana pudica bellezza?
(da I poeti futuristi, 1912)
di ALDO PALAZZESCHI
Chi sono?
Chi sono?
Son forse un poeta?
No certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
"follìa".
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non à che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
"malinconia".
Un musico allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
"nostalgia".
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
dinanzi al mio core,
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
saltimbanco dell’anima mia.
(da L'incendiario, 1910)
Dalla presentazione di Giuseppe Ravegnani
Non uno, ma più futurismi
Dunque, gli anni più veri del futurismo, dal 1910 al 1916, o tutt’al più, dal 1910 al 1920, rivisti sopra il piano storico d’una cultura che, ribellandosi alle mobili eredità ottocentesche, sentiva di poter rappresentare il proprio tempo, non possono non dimostrarsi importanti, non tanto per i manifesti, programmi e le prove di poesia e d’arte, quanto per i fermenti d’uno “stato d’animo”, la cui fiamma rinnovatrice si rifletteva anche sopra coloro che futuristi non erano.
Vicende e poeti del futurismo
Dunque, anni cruciali e operosi per la poesia italiana e europea, codesti che ho creduto opportuno di rinverdire. Sono gli anni che già danno, accanto alla tensione di una libera fantasia, anche la tematica d’un mondo poetico, che sarebbe errore sminuire con definizioni di comodo come simbolismo, decadentismo e magari futurismo. In quegl’anni, futurismo, per Palazzeschi per Govoni, per Soffici, per Buzzi, per Folgore, cioè per i poeti maggiori significò soprattutto rivolta all’accademismo di una certa poesia succube dei più consumati moduli da una parte ottocenteschi, e dall’altra carducciani, pascoliani, e dannunziani.





