a cura di Rosanna Frattaruolo

Dario Capello della poesia dice

La poesia, in fondo, non si sa che cos’è. Proprio come la vita, nei momenti che contano. È un mondo intero, una volta per tutte. Oppure è niente.
La mia idea di poesia (ma “idea” è parola grossa) presuppone un non detto, in quanto non dicibile. Non mi riesce di dare fiducia incondizionata al dicibile. In buona sintesi, la parola “dolore” indica il dolore, ma in poesia è il dolore che non c’è più, o quello che verrà. C’è sempre uno spazio incolmabile che separa il vissuto dalla parola.
Da tempo si è incrinato, non solo per me, il patto che rendeva trasparente la parola, quel patto che sigillava la fiducia tra il nominare e la cosa nominata. In compenso continuano a rimanere felicissimamente aperti i confini, i riverberi di ogni parola. Cerco allora in poesia di enfatizzare, anche rischiando, questa possibilità, questa forza dei margini fluttuanti tra le parole, questa libertà di echi…

La sua poesia ci dice

Centrale da Il corpo apparente, ed. Niebo, 2000

Invece li vedi
scendono dai treni si corrono incontro
dappertutto
orizzonti, punti cardinali, sillabe
sgranate.
Hanno lasciato a sé
il senso di esistere
nella spina dorsale dove entra
esce dagli uni agli altri
l'interno, l'esterno di chi si getta
al collo di qualcuno.

                   Ti domandi dove ha fallito
Orfeo, nell'apparizione
dei pedoni che cercano il centrocittà,
pochi isolati, poi le cabine
dei telefoni, poi nulla.

***
da Vanità del tema, ed. vienneperre 2007

quando dici il leggero, il soffio
d'aria, prepari un destino
sfogliato tra le dita.
Ma ogni via è una via
sensibile ai cambi di luna, ogni
via è ronda di un doppio
passo, sogno del mondo, tutto
il mondo che non vediamo:
metà piuma, metà
lama di coscienza.

***
Da Vanità del tema, ed. viennepierre 2007

tu sapessi l'indifeso, il livido
lasciato a vista, in salotto
tra spazi obbligati, paradossi
e zig-zag della lingua

tra i canditi verdi e rossi,
anche l'oracolo dirottato
svelato nel ritmo “un prima
un dopo, un quasi da incantamento”.

Già il bel suono della frase
aiuta, guida i passaggi,
cose che dette in versi
mezze nude di pensiero
sfuggono dai corridoi,
dal mezzo giro della chiave.


Dicono di lui e della sua poesia

Milo De Angelis, dalla prefazione a IL CORPO APPARENTE, Niebo, 2000. IL CORPO APPARENTE viene alla luce dopo ventidue anni di silenzio, e di questo silenzio porta in sé tutta la feconda, solitaria tensione. Dario Capello aveva esordito nel primo numero di Niebo (1977) con nove poesie che avevano subito impressionato per la potente densità di pensiero, in cui si innestava una voce drammatica, allarmata, capace di cogliere con dizione netta le sfumature del dolore. E la voce è rimasta quella. Con in più una prospettiva, e un movimento. Se nei primi testi avevamo l’impressione di un oracolo fermo e assoluto, qui appare piuttosto la figura di un camminatore, di un’anima vigile e straziata che, vagando per Torino, concentra il suo sguardo sulla grande incompiutezza. Vagando per Torino. Questa città, luogo e non luogo, diventa il teatro di ogni incontro: teatro livido, pericolante,
sempre sul punto di franare sullo spettatore e di ricondurlo alle macerie di entrambi. Dopo Pavese, non ci sono stati altri poeti che abbiano espresso con tanta forza il senso di una Torino notturna e sensitiva, architettura di silenzio sospesa fra due fiumi. (…)

Marco Vitale, in “Poesia”, N. 198, ottobre 2005. Autore appartato, poeta, saggista, critico letterario, Capello ha fatto della sua città, Torino, un punto di osservazione privilegiato, un luogo d’elezione e verrebbe da dire di caccia per conto di una rètina mai paga di immagini e di rifrazioni, illuminazioni notturne, squarci e insieme veli rispetto al corso di una vita vagheggiata e ai suoi tempi interiori. Mistero e senso del tempo sono le due polarità su cui Capello orienta la sua misurazione, l’allarmato interrogarsi – senza illusione di risposte- fitto degli scandagli di una parola poetica ridotta all’osso. Densa è infatti la tramatura su cui questi scandagli vengono a comporsi, figurazioni predisposte con oculata eleganza e sempre un pò spiazzanti. (…)
Marco Ercolani, su Vanità del tema, in Vertigine e misura, ed. La Vita Felice, 2008. Il tono aereo e vellutato della voce nasconde minime dissonanze in cui volutamente la “nota sospesa” accenna e non conclude. (…) Il movimento è sempre fluttuante, aleatorio. Il poeta disegna, con delicata precisione e voce trattenuta, una strategia musicale delle cose imperfette e minime: “ecco il nudo testo nella luce / il dissolto che passerà in voce”. La maschera del timbro fa apparire facili e lievi versi che sono apocalittici, li stempera in ovattati incantamenti, in modulazioni che evocano le partiture, al limite del silenzio, di Salvatore Sciarrino.
Personaggio walseriano e appartato, lontano dal minimalismo biografico e provinciale di un certo clima poetico, Capello compone una poesia impressionata dalle percezioni, come certe pellicole ultrasensibili (…)
Alessandra Paganardi, La vanità dell’apparenza, in “La Mosca di Milano”, dicembre 2008. (…) Altro emblema della poesia matura di Capello è l’indifeso, raffigurato dalla nudità. Il corpo (…) riemerge ora come simbolo di ciò che è inerme, sottratto alle regole mondane della malizia e della lotta: non figura solida, ma alone inespresso, desiderio inconfessato che “rima col nulla”. Questo corpo “davvero nudo”, come il poeta lo definisce, non ha più niente di fisico, ancor meno di organico: attraversato dalla luce, esso ha sede nello spazio liminare dell’abbandono e del sonno. Il corpo indifeso è allegoria della parola poetica; anch’essa passerà. Come il non nato buddista, come i mille gesti che si infrangono prima di potersi realizzare, la poesia muore ogni giorno, oppure non viene al mondo: “crolla ai confini della bocca” (…)

Dario Capello e i suoi poeti

I Maestri. Ora che ci penso, riconosco due figure importanti per i miei inizi. Al tempo dell’adolescenza, Cesare Pavese (l’uomo solo…) che non ho avuto modo di incontrare, per ragioni anagrafiche. Subito dopo, nella prima maturità, Milo de Angelis, incontrato e lungamente frequentato nei primi anni settanta, al tempo della rivista “Niebo”. Poi, naturalmente, si è spalancata tutta, o quasi tutta, la finestra sulla poesia del 900, perlopiù italiana e francese.


In dono a Dario e ai lettori de Il Tasto Giallo, Al timone di una goccia di Milo de Angelis da Millimetri (1983) in Milo de Angelis Tutte le poesie 1969-2015, Lo Specchio Mondadori 2017

Al timone di una goccia
ritorna
un calendario in
sangue di cicogne. E più tardi
- fino a chi – lo sparo risoluto
che mira.
Si conficcano lì, unghia, come
tu nella tua bianchezza
quando un rito purosangue
dichiara tempo
e ci sono sassi in un angolo
della viva.

Dario Capello nasce a Torino nel 1949, e a questa città dedica due saggi. Torino. Da Nietzsche a Gozzano, ed. Unicopli 2003, e Amante vertiginosa, ed. Casaccia 2010. Cesare Pavese è poi l’ispiratore di una plaquette poetico-teatrale, La valigia di Leucò, ed. Casaccia 2013. Suoi testi sono apparsi su svariate riviste.
Libri di poesia: IL CORPO APPARENTE, ed. Niebo, 2000, Nel gesto di scostarsi, ed. Dialogolibri 2001, Vanità del tema ed. viennepierre 2007, Dove tutto affiora (variazioni sull’ Apocalisse), ed. alla chiara fonte, 2009.


In voga