
TÉRA – La terra – è la recente silloge firmata Carlo Ragliani edita da Ronzani editore (2024), con introduzione a cura di Maurizio Casagrande. Una raccolta profondamente legata al territorio, come già ci suggerisce il titolo, scritta in dialetto di Candiana, con relativa traduzione. L’assenza di sezioni o divisioni in capitoli, rendono l’opera estremamente compatta e immediata nella comunicazione col lettore. La scelta della copertina è affidata all’artista Ferdinando Andreozzi (incisore) che (come artisticamente descritto) “trasforma attraverso la costruzione di tracce grafiche la materia del corpo in concetto, stimolando riflessioni sull’interiorità e creando continui rimandi tra la componente carnale e psichica della natura umana”. Doti artistiche che richiamano perfettamente gli intenti poetici dell’autore che attraverso i suoi versi e la scelta di un antico quanto poco conosciuto dialetto, ci pone di fronte ad una cruda e spiazzante visione della realtà contadina, di un passato geneticamente connesso al suo corpo e inciso nella sua psiche, nella visione del quotidiano e dei rapporti interpersonali.
La silloge si apre e si conclude, con importanti varianti testuali, con due poesie (in realtà tre nell’intero libro) ugualmente intitolate Questa è la terra dei miei morti, una circolarità che, come in un campo arato e ben circoscritto, racchiude ricordi e i sentimenti nostalgici del poeta. Comprendiamo i sacrifici degli avi nella cura della terra, “Della fatica perpetua. / Questa è la terra del sudore e delle bestemmie. / Dei capelli bianchi. Delle unghie sporche. / Dei pantaloni di fustagno. / Delle camicie dalle maniche arrotolate.” Un ricordo forte e presente che in qualche modo lega in maniera indissolubile l’autore alla sua téra (terra). Da qui si diparte il viaggio (o racconto) di Ragliani, attraverso la nebbia delle pianure dove “sembra nuotare in un secchio di latte” e del suo peregrinare “senza meta”. Il ricordo delle persone morte risorge imponente ne “il giorno dei morti”, qui affiora soprattutto il dolore e il sentimento d’impotenza di fronte a quel “cemento (che) si è slavato” – saturo del pianto che vi porgo”. Le considerazioni sul passato sono pregne di durezza, di una condizione dalla quale è spesso difficile allontanarsi per migliorare la propria esistenza nella realizzazione della progettualità futura. Dice “siamo maturati troppo presto. (…) E ci siamo scavati una tomba in crescere”.
Attraverso la consapevolezza del proprio passato si giunge ad affrontare il presente e le proprie paure. “Devo confessare un male / Che serbo nel cuore ed in mano. … E sento la colpa / dell’innocenza. / Di non aver fatto nulla. / Che ogni cosa è nulla.” Libero da questa “colpa” l’autore ci propone versi di denuncia e protesta, versi poeticamente potenti che non escludono terminologie insuete e forti, lontane da una poetica accomodante e pacata. La forza della parola s’impone su ogni altra cosa senza mai tralasciare sonorità e ritmo. Un incalzare di forza e poesia marcatamente contemporanea, composta e sfrontata, assolutamente chiara e terribilmente efficace che dimostrano la ricercatezza di uno stile ben definito che non perde di musicalità nella trasposizione in lingua italiana.
Il poeta, figlio della propria terra d’origine, ne prende allo stesso tempo “distanze di sicurezza” quasi a voler salvaguardare la propria integrità intellettiva e ci dice che “quando sarò morto, spero che un passero / Mi porti una briciola di pane, un goccio di vino dignità umana (…) Un’inezia per ricordarmi / Che anche io sono stato tra di voi”. E’ questa la speranza di Ragliani, l’uomo che qui si racconta e che confessa come il gioco delle parti non faccia per lui: “a me il cortile, / la siepe del gobbo Leopardi, / I miei cani, e guardare gli stormi tutto il giorno.” Ma è certamente nel ricordo del nonno che intravediamo la sofferenza di una perdita, l’amarezza della vita e l’impotenza contro il male e l’implacabile fine che attende noi tutti. Restano impressi e indelebili “Due fari accesi / Nel nero denso.”
Nota di lettura a cura di Antonio Corona.
Estratti da TÉRA
Go pensà tante ɣolte de coparme.
De ndare su in texa, łigarme pa’l còeo
Cò na corda, e picarme cofà na bondoła.
Ma nó ve meritè gnà ea fadiga morire.
O de ɣegnerme rompare l’anema
F’in simitero. Ca nó ve senta criare,
E gnanca ndar torno. Sa me cópo,
Xe sóeo ca colpa vostra.
Se me cópo xe sóło ca colpa vostra.
Ho pensato tante volte di uccidermi.
Di andare in solaio, legarmi al collo
una corda, ed impiccarmi come una soppressa.
Ma non meritate la fatica di morire.
O di venir a infastidirmi
Fino in cimitero. Che non vi senta piangere,
E neanche lamentarvi. Se mi uccido
è solo vostra colpa.
***
Cuesta xe ła tèra dei me morti.
De me nona, e de me nono.
Deł triboeare de me opà,
Dei sïori che nó semo mai stà.
Dea fadiga che mai basta.
Cuesta xe ła tera dei süori e dee biasteme.
Dei caɣeji bixi. Dee onge onte.
Dee braghe da dilaoro.
Dee camìxe fate su fi’ i gumbi.
Dal gnente ca so sta fato,
Al gnente indove ca ndarò finirla:
Cuesta xe lengua ca cavo de boca ai me morti.
Questa è la terra dei miei morti.
Di mia nonna, e di mio nonno.
Della soma di mio padre,
Del denaro mai avuto,
Della fatica perpetua.
Questa è la terra del sudore e delle bestemmie.
Dei capelli bianchi. Delle unghie sporche.
Dei pantaloni di fustagno.
Delle camicie dalle maniche arrotolate.
Dal niente da cui nacqui,
Al nulla in cui sprofonderò:
Questa è la lingua di cui privo i miei morti.
***
Ara cuà: da mi e ti semo in dù mona.
Ti, ca te speti came casca colcossa
Pae sfexe de sta keba. E mi, ca, serco
De sparagnare anca cuéo ca nó posso.
Guarda: siamo in due stupidi.
Tu, che aspetti cada qualcosa
Dalle feritoie di questa gabbia. Ed io, che cerco
Di risparmiarmi anche ciò che non posso.
Carlo Ragliani (1992) ha pubblicato Lo stigma (ItalicpeQuod, 2019) e La carne (Ladolfi, 2024) con segnalazione speciale al Premio Montano XXXVII, Tèra. La terra (Ronzani, 2024).




