a cura di Rosanna Frattaruolo

Mara Venuto della poesia dice

“dove una parola potrebbe dire/rimane sempre quello che predice”, questo verso di Thierry Metz esprime un aspetto, quello predittivo ed epifanico, che sento proprio della poesia. La poesia è un mistero che la ragione non può di per sé sondare, né comprendere o dimostrare, si può solo avvertirne l’intrinseca verità. In greco antico, il termine μυστήριον / mistero era usato per lo più al plurale e indicava la celebrazione di riti ma anche, per estensione, i culti stessi o, più genericamente, un segreto o una verità religiosa rivelata da Dio. La poesia ha per me questa sacralità e sostanza, è rivelazione e il poeta è il medium. Il linguaggio, che della poesia è forma ed essenza, richiama d’altronde quel λόγος, il cui significato nel pensiero greco antico è di “principio razionale divino che pervade tutto l’universo”, per i cattolici è la “Parola” o “Verbo” che dà origine a tutte le cose. La poesia, dunque, è parola che nasce dal divino, predice e manifesta. Per tornare al concetto di mistero, Ungaretti nella sua celebre definizione della poesia dice che essa è tale “quando porta in sé un segreto”, un segreto o, appunto, un mistero. Dunque, attraverso il rito della scrittura, della composizione, la poesia può compiere una funzione sacra, sacra anche laddove si tratti di una poesia “terrena” per contenuto e forma: mediante la parola può creare visioni, farsi tramite, vaticinio. Può vivificare ciò che non è detto, il non visto, il non compreso e riconosciuto: dalla negazione del non essere alla dignità del portare alla luce, dare vita e chiamare per nome.

La sua poesia ci dice

Nella stazione bruciata
un raduno di ferro digrigna i denti,
due strade senza scelta prendono il comando
finché cede lo sguardo oltre l’angolo
e si spezzano i voti
a tirare nella gola gli amen alle spalle.
Nei nostri ricordi vediamo i morti,
agganciati come vagoni
alla ruggine che addolora il sangue
e non muove più i treni.

(da “La lingua della città”, Delta 3 Edizioni, Collana “Letture Meridiane” a cura di Eleonora Rimolo, 2021)

*
Dove siamo nati non è dove morremo,
in fondo è una parentesi questa inclinazione,
la grandezza e la miseria
avvinte in una cellula piccola,
un’idea del vero nel quadro.
È ingombrante la tua presenza, la tua ambizione
violenta la nostra affezione alla fragilità,
alle picche sui cuori, alla danza
prima di crescere in strada
dove il nostro palcoscenico erano solo gli altri.

(da “Vora”, Pequod, Collana “Portosepolto” a cura di Luca Pizzolitto, 2023)

*
Occhi animali fuggono i recinti,
il padrone segue il mugghiare
che si estingue a filo
nella bocca di un dio.
La rotazione delle creature
non ha risparmiato i figli,
il feto ingobbito pare già vecchio,
non sa di esistere.
Nelle forche dei rami
i nidi cispellini danno calore
nonostante l’abbandono,
e anche noi siamo stati amati.

(Inedito, 2024)

Dicono di lei e della sua poesia

Giovanni Laera, Prefazione di “Vora” (Pequod, 2023):
Mara Venuto dà ascolto, in questo libro, a quelle voci in grado di crepare il suolo, di farci letteralmente mancare la terra sotto i piedi, insegnandoci che è nell’ascolto – ancor prima che nella scrittura – il vero mestiere del poeta. […] È una lingua, quella di Mara Venuto, personale, riconoscibile eppure straniera, chiara eppure intimamente ambigua. Si pensi all’uso generalizzato dell’infinito che pervade i versi: non ha mai un intento iussivo, non covando tale voce alcuna aspirazione prescrittiva; né possiede un valore ottativo, immune com’è alla facile nostalgia o al rimpianto di desideri irrealizzati. No, l’infinito squadernato in questi versi è tanto più affascinante e poetico in quanto privo di soggetto, arguto medium che conferisce al dettato un’ambivalenza sia a livello semantico che sintattico, mezzo stilistico ma soprattutto esistenziale per poter discernere una traccia nel tempo […]. Carica di destino, la poesia di Mara Venuto si offre come martyrion, insieme sacrificio e fedele testimonianza di un luogo e di un tempo resi paradossalmente indimenticabili dalla distanza. La lingua della città (per citare il titolo del libro che l’autrice ha pubblicato nel 2021) è qui tradotta nel lessico della caduta e dello sprofondamento, in cui l’esilio si impone come condizione biografica e, nel contempo, storica, in cui la stessa esistenza dell’io poetante è messa in dubbio dalla dolorosa disciplina dell’abbandono […]. La poesia di Mara Venuto è un mare in cui confluiscono archetipi junghiani e tracce di miti, confessione e impegno civile, storia – insieme personale, familiare e collettiva – e inopinate epifanie. Giunta alla sua quarta raccolta poetica, Mara Venuto ci sembra pronta ad affermarsi come una delle autrici più interessanti della poesia italiana contemporanea. Ai lettori il compito di accogliere il dono di questa voce come un trasalimento.[…]

Marisa Martínez Pérsico, Il sarto di Ulm n. 19 (Macabor Editore), su “Vora”:
“Vora” (Pequod, 2023) è un libro dalla cui lettura si esce più lucidi, senza autoinganni. La messa in discussione dell’identità adulta, la perdita dell’illusione e la crisi della maturità sono alcuni degli argomenti affrontati dall’autrice Mara Venuto. Non si evidenzia nella raccolta la paura della morte, quanto della perdita dell’identità soggettiva. Paura del cambiamento inevitabile. Si tratta di una minaccia più interna che esterna e i verbi all”infinito vengono usati con valore imperativo come istruzioni di vita. C’è la necessità di dare un nome alle paure per esorcizzarle […]. Il vocabolario religioso viene risignificato in chiave profana e gli spazi lirici sono carichi di un’atmosfera sacrificale. “In Vora” i calici si seccano. Le illusioni infantili si sciolgono nel tempo, la terra finisce per inghiottirci, ed è la verità ultima. La terra locale, nello specifico pugliese, diventa universale. Una metafora umana.

Alfredo Rienzi, Almanacco Punto, 25/03/2024, su “Vora”:
I testi non hanno titoli, presentano diversi riferimenti e rimandi interni, adottano una veste stilistica e linguistica omogenea: è un caso esemplare non di una “raccolta” di poesie ma di una “opera in versi”. Sebbene il titolo possa fare ipotizzare la presenza di imprestiti dialettali o l’utilizzo di vocaboli rari o desueti, se si eccettuano alcuni lemmi infrequenti («uzzo», «caròla», «incista», «grugano») ci troviamo di fronte una poesia esatta, che tuttavia privilegia un dettato chiaro ma non appiattito e un verso sintatticamente lineare e compiuto, ma lontano dal prosastico o colloquiale.
Mara Venuto tiene alta la lingua poetica soprattutto attraverso la densità delle metafore e il valore simbolico e semantico delle parole.

Mara Venuto e i suoi poeti

Il primo autore che mi ha affascinata è stato Lucrezio, scoperto al liceo con il “De Rerum Natura”.
Un classico di cui mi colpirono la musicalità e la riflessione sulla morte e il libero arbitrio. Al liceo ho amato molto anche il Manzoni delle Odi sacre, in particolare “La Pentecoste” per la potenza della conversione, e poi “Il cinque maggio” per la visione umanissima dell’epopea napoleonica; ma anche il Foscolo e il Pascoli, i classici restano un faro. Il primo libro di poesia che ho acquistato, negli anni ’90, era invece di Nazim Hikmet, tutte le poesie d’amore, la vividezza delle immagini del Bosforo e la poetica dell’esilio, hanno lasciato tracce profonde dentro di me. Da autrice pugliese, oggi mi sento particolarmente legata a Vittorio Bodini e a Claudia Ruggeri, di cui amo soprattutto la lingua materica e metaforica, mi sento molto grata anche all’italiano Mario Benedetti, a Piera Oppezzo e al già citato Thierry Metz per via della concretezza del dire e per il dolente autobiografismo ed esistenzialismo. Infine, mi è caro anche il poeta albanese Gëzim Hajdari, autore civile dal verso ribollente e aspro, che sento affine.


In dono a Mara e ai lettori de Il Tasto Giallo, da La luna dei Borboni (1952) un testo di Vittorio Bodini

Sulle pianure del Sud non passa un sogno.
Sostantivi e le capre senza musica,
con un segno di croce sulla schiena,
o un cerchio,
quivi accampati aspettano un’altra vita.
Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe
anche un pensiero, un verbo,
con il bigio sgomento d’una talpa
correre tra due pietre.

La pianura mirare a perdita d’occhi,
senza case, senz’alberi, senza una lettera:
livello di un’assenza a cui sole si sporgono
capre o spettri di capre morte da secoli,
che brucano le amare giade dell’insonnia,
l’acciaio senza luce d’antiche spade,
quando popoli amari si scontravano
e di sangue tingevano i cieli della preistoria.

Così, se qualche giorno dal sottosuolo
un riso magro scatenato nel vento
di scirocco si stira,
ciò che all’imperturbato cielo e ai corvi
scopre la vanga
sono le dentature di cavalli
uccisi che si rammentano
che dolce festa faceva
quand’era vivo il sangue sulla pianura.

Mara Venuto è nata a Taranto, vive e lavora a Ostuni. Ghostwriter freelance e curatrice editoriale per Mondadori, Piemme ed editori indipendenti, tra le sue pubblicazioni premiate, i monologhi teatrali: Leggimi nei pensieri (Cicorivolta Edizioni, 2008), The Monster (2015); le raccolte poetiche: Gli impermeabili (2016); Questa polvere la sparge il vento (2019); La lingua della città (2021); Vora (Pequod, 2023). Ѐ stata ospite di numerosi Festival Internazionali di poesia in Italia e in Polonia, Albania, Macedonia e Kosovo; suoi testi sono stati pubblicati in più lingue. Ѐ presente in volumi critici sulla poesia italiana contemporanea pubblicati da Macabor Editore; recensioni sui suoi libri e sue interviste sono apparsi su media nazionali come il Corriere della Sera, inserto domenicale La Lettura; La Repubblica, edizioni di Bari e Milano; Il Giornale; Il giorno. Ѐ stata finalista al Mario Fratti Award 2014 per la drammaturgia italiana a New York con il monologo The Monster; nel 2024 il suo dramma Le lettere è stato premiato dalla rivista Sipario al Piccolo Teatro di Milano; il suo dramma Faith, tradotto dai Professori Emeriti della Saint Thomas University della Florida, Elisabeth Ferrero e James W. Conley, sarà prossimamente messo in scena negli Usa e pubblicato in doppia lingua.


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