a cura di Rosanna Frattaruolo
Sergio Bertolino della poesia dice
È un’esperienza del linguaggio, semplicemente accade; e accade fuori da ogni sfera di controllo dello scrivente – che è libero di protestare ma non l’ha mai “posseduto” e può solo sfiorarlo, al massimo strapparne un lembo, una piccola traccia da lasciare sul foglio.
Con la poesia facciamo esperienza delle possibilità del dire, dell’infinibile (il non detto) che prende forma di suono e segno, delle
pause tra i suoni e tra i segni, delle più alte profondità insite nella parola.
Gilles Baudry afferma che il poeta «rivela un senso che è anche svelamento di un’assenza. Nel tempo stesso del suo dire, dispiega lo spazio dell’infinitamente taciuto».
Insomma, per citare un breve passaggio della mia premessa al primo numero di «Avamposto», si tratta di «attualizzare potenzialità della lingua scarsamente impiegate quando non obliate, comprendere che in un tale ambito essa costituisce, anziché un mezzo, un fine. E dunque la parola non è più maschera della cosa, ma ha una propria autonomia, una propria identità – un’identità linguistica».
Aggiungerei che la poesia sancisce soprattutto un incontro, spesso inaspettato. Ha a che fare con il Tu, con l’Altro e sfugge (almeno in parte) al dominio della volontà di chi scrive, rendendo il lettore compartecipe dell’atto creativo, del processo di costruzione del senso.
La sua poesia ci dice
Ora che t’ho visto fiorita in sogno col sambuco,
pago volentieri la mia quota d’indifferenza,
torno pacificato alla vita nel bozzolo
mentre la città che mi volle sommerso invecchia
come il pane della festa. C’è affinità tra me
e le cose nascoste: chi ride osceno per la pioggia
ha la stessa imperfetta devozione all’ombra.
Ma ora che so di appartenerti, pure quest’alba
si fa santa nell’immagine di te.
*
Forse un’eco, da dove l’ordine è finale
e abbiamo i palmi scorticati per la gioia
a un suo sorriso, l’imprudenza collaudata
delle sere nei parcheggi che lodiamo
senza vento, prima di.
Ricordo sì, la città da cui partimmo
rodere gli alberi in preghiera si direbbe,
la neve in bocca che splendeva come un sasso
o una moneta; e il silenzio, il silenzio
era una bava, il mio cuore
contro il tuo semplificato.
*
Si cchiovi forti ngiura n’atra siti
’u vecchiu ntrubbuliatu
’a lingua ri sdirrupi. Sciogghi i cani
aùnd’è prena, sputa pi ccamora. L’arduri
è na sciumara troppu shritta mi t’a squagghi.
L’arduri è l’atra siti chi zannìa
chi cùbuli e chi muschi,
chi cùbuli e chi frischi ri limuni;
chi ddici: Vogghiu ’u mbernu ’u mbernu vogghiu
’u mbernu ancumarinu pi nchianari.
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Se piove forte offendi un’altra sete
il vecchio annuvolato
la lingua dei burroni. Sciogli i cani
dov’è pregna, sputa per adesso. L’ardore
è una fiumara troppo stretta per sparire.
L’ardore è l’altra sete che giochicchia
con cupole e con mosche,
con cupole e con fischi di limoni;
che dice: Voglio inverno inverno voglio
inverno comeazzurro per salire.
Dicono di lui e della sua poesia
Giancarlo Pontiggia
Già nella raccolta precedente, La sete, che era uno dei libri più intensi e dirompenti che avevamo letto negli ultimi anni, il poeta si dipingeva fin dal prologo come “l’uomo che guarda fisso il vuoto / dai ponteggi, che pensa / nulla di questa febbre andrà risolto”. Un uomo che sentiva in sé, con la stessa urgenza, il mistero della vanità delle cose del mondo e il desiderio di fissare nuovi patti, di incamminarsi per nuovi sentieri. Resistenza e sparizione sembra approfondire proprio il tema della sete, portando all’estremo un’idea di poesia che si muove tra ribellione e disciplina. E il paesaggio che qui si profila è quello delle origini, che già avevamo esperito nella raccolta precedente, ma non con la stessa selvatica virulenza di ora, la stessa «fame di radici» e di «arcano» che agisce in queste pagine, dove il ricorso – per un’intera sezione – al dialetto reggino, svela tutta la carica delle scelte, e la forza dell’inabissamento.
Nina Nasilli
In Resistenza e sparizione di Sergio Bertolino si assiste alla manifestazione del punto misterioso in cui la lingua si fa linguaggio e la parola si fa poesia. Svolto in quattro partiture (di cui una in dialetto calabro), un flusso sonoro inquieto, che scaturisce da un’autentica istanza di ribellione, si dipana in un ritmo audace, scandito da “bave” di silenzio organico che isolano sintagmi di fulminante luminosità, e trova poi nell’esattezza semantica la rivelazione della Verità: che è – in forma di enigma – contemplazione e denuncia della dolorosa coscienza della condizione umana, percepita “fino all’osso abbarbagliato dalla stella”. Attraverso una composizione che sfrutta le risorse del paradosso, ciò che sostiene la resistenza a fronte della certezza di sparizione è la “cellula felice” dell’amore ardente per la vita (“io l’amo follemente / come si ama negli addii”), e per la lingua che lo può dire, anche quando essa è il silenzio della “non-parola” che fiorisce.
Sergio Bertolino e i suoi poeti
Mi interessa soprattutto lo stile. Per fare un esempio, nei pittori non apprezzo particolarmente i soggetti che scelgono o le intenzioni “laterali”, bensì l’uso che fanno del colore e il loro grado d’immaginazione formale. Che lo si voglia o meno, l’arte privilegia questi aspetti e io, fin da ragazzo, ho cercato di imparare più che potevo, ho sudato in bottega, dunque sono in debito con tanti poeti, anche solo per qualcosa.
Se dovessi citarne alcuni, tra gli italiani direi senz’altro Leopardi, Petrarca, Luzi, Rosselli, Benedetti e il mio conterraneo Calogero. Per quanto riguarda gli stranieri (ho studi comparatistici alle spalle), sono legato al primo romanticismo di Keats, al simbolismo di Baudelaire; Rilke e Celan mi hanno influenzato tantissimo, quasi devastato, come pure Thomas e Lorca. E non posso non nominare Blake, Eliot, Mandel’štam, Dickinson, Yeats, Stevens, Walcott, Bonnefoy…
Sì, sono tutti morti.
In dono a Sergio e ai lettori de Il Tasto Giallo, di Federico Garcìa Lorca, El silencio/ Il silenzio da Poema del Cante jondo,1921, in I grandi poeti. Lorca, 2008 Il sole 24 Ore, traduzione di Carlo Bo.
Oye, hijo mìo, el silencio
Es un silencio ondulado,
un silencio,
donde resbalan valles y ecos
y que inclina las frentes
hacia el suelo.
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Ascolta, figlio, il silenzio
È un silenzio ondulato,
un silenzio,
dove scivolano valli ed echi
e che piega le fronti
al suolo
Sergio Bertolino è nato a Reggio Calabria nel 1984 e vive a Torino, dove insegna Lettere alle scuole superiori. Cofondatore e condirettore della rivista di poesia «Avamposto», ha pubblicato le raccolte di versi Chiave di volta (Nulla Die, 2018), La sete (Marco Saya, 2020 – Premio Umbertide XXV Aprile 2022) e Resistenza e sparizione (Avagliano, 2023 – 3° Premio PontedilegnoPoesia 2024).
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