a cura di Rosanna Frattaruolo

Antonio Fiori della poesia dice

Come ebbi modo di dire qualche tempo fa, rispondendo alla stessa domanda, la poesia è un’infermiera, colei che somministra il farmaco, ma al contempo può dirsi che la poesia è il farmaco stesso. Ci soccorre, prova a lenirci il dolore, ma non può curarci davvero, né tantomeno salvarci l’anima. Ci aiuta “semplicemente” a sopravvivere, ad avere il coraggio di guardare e interrogare la ferita. La poesia non solo è l’infermiera di chi scrive, si prende anche cura di chi legge, proponendo al lettore la stessa medicina dell’autore.
Ho raccontato più volte dell’origine traumatica della mia poesia (legata al cambio di lavoro, avvenuto nel 1993). Quasi tutte le biografie dei poeti, d’altra parte, confermano questa scaturigine. La poesia però, a un certo punto, comincia a camminare da sola, a prendere coraggio, come un bambino che inizia a camminare. Ed allora, senza dimenticare mai la ferita originaria, la poesia matura, assume varie forme: diventa denuncia, indignazione, voce prestata a chi non ha voce, canto d’amore, perfino visione, trasfigurazione del mondo.
Vorrei ricordare, sulla poesia, l’insegnamento del grande scrittore Czeslaw Milosz (Nobel 1980 della letteratura) il quale, ormai ottuagenario, annotava nel suo diario: «Penso anche che, se potessi ricominciare da capo, ogni mia poesia sarebbe il profilo o il ritratto di una persona concreta, o più precisamente, un lamento sopra il suo destino». Una lezione indimenticabile di umiltà e un supremo compito altruistico assegnato alla poesia.

La sua poesia ci dice

Il buio da Nel verso ancora da scrivere, Manni, 2018

Ritornasse il buio delle origini
senza luminescenze artificiali
quando di notte dava le vertigini
temere che non finisse mai.
Era ogni cosa cosa senza nome
foglia, sorgente, nuvola, animale
non esisteva alcun dove o come
solo la fame, il sesso, il riposare.
È invece questo buio troppo umano
– di manufatti e strane compagnie
di luci e rumori d’aeroplano –
a metterci paura del domani

*

Inedita

Siamo dentro il discorso disperato
che tenta di afferrare il proprio oggetto.
E quando sostiamo per l’affanno
con in mano tremante una tenaglia
scopriamo la speranza denigrata
che pianta il suo vessillo sulla resa.

*

da La stessa persona, peQuod, 2024

Onore al bianco del foglio
al silenzio che lo colma
a quest’orlo che taglia.
Onore alla parola da scrivere
al senso che nasconde
al suo apparire viva.
Onore al tuo esitare, al non sapere se dirla
al traboccare dai margini la voglia
di farla nascere, di scriverla.
Amore è scriverla col bianco
inchiostro che la dice e insieme la cancella
che la nasconde a tutti per salvarla
lasciando bianco il foglio
rendendo impossibile trovarla.

Dicono di lui e della sua poesia

Voci apocrife, romanzo di poesie in raffinata burla di Massimo Onofri, Avvenire, 25 agosto 2020.
Scrive Antonio Fiori nella Presentazione di questa sua antologia intitolata I Poeti del sogno, uscita per i tipi dell’editore Inschibboleth (p.128, euro 12,00), con una breve ma densa Postfazione di Donato Angeli: “Eccoli i dodici apostoli della poesia. Sono stati prescelti perché uniti da un sogno che li ha visitati tutti: un sogno enigmatico, nel quale, con poche varianti, sono interrogati senza comprendere la domanda o l’evento annunciato.” E’ dunque il sogno – il sogno rivelatore, che arriva sempre nella vita di ognuno, anche se nessuno ne “comprende la lingua” – la materia evanescente di questo libro. Occorre subito aggiungere però, perché il lettore, di primo acchito, non si senta ingiustamente troppo ignorante per non aver mai sentito pronunciare alcuno dei nomi antologizzati, che nessuno dei citati “apostoli della poesia” – da Lucio Faleno Magno (nato a Roma nel 63 a.C.) a Gherardo Finzio (morto ad Alghero nel 2016 a soli 36 anni) – è mai veramente esistito, risultando così fatto della stessa stoffa del sogno da cui sono germinati i componimenti che sono loro attribuiti. Ecco perché, oltre alle poesie antologizzate, particolarmente suggestive ci risultano senz’altro anche le brevi e non di rado rocambolesche biografie immaginarie che precedono, in ogni capitolo, la selezione dei testi.
Questo per dire che le biografie non sono meno compromesse dei testi (ce ne sono persino in napoletano) da un’intenzione di allegra e coltissima mistificazione letteraria, di euforica manipolazione. Un solo esempio? Quello di Olga Taraskova (autrice di poesie amorose e patriottiche, una trentina di racconti e due romanzi) nata a Mosca il giorno di capodanno del 1801, sposa del poeta, scrittore e critico Sergej Brezovskij, morto improvvisamente a quarant’anni nel 1835. Donato Angeli suggerisce giustamente il fatto che al lettore è richiesto “il piccolo sforzo di almeno due letture”. La prima, la più facile, mettendosi nella condizione di “non sapere che i poeti sono immaginari”, la seconda, più meditata e all’altezza delle più sofisticate estetiche novecentesche, “pensando a un unico autore che, come un romanziere, ha inventato i suoi personaggi (i poeti del sogno) e li ha fatti parlare (con le loro poesie) ma solo per riuscire a scrivere la propria poesia”. Insomma: siamo di fronte a un’antologia di versi interamente apocrifa o a un romanzo di versi o a un romanzo polifonico che fa della poesia la materia di avventurose trame, così da rinnovare un genere letterario di cui s’è proclamata troppe volte la morte? E di che natura è la drammaturgia del personaggio? E ancora: abbiamo a che fare con l’ultima disperata epopea del personaggio-autore dato per estinto da Proust, contro Sainte-Beuve, all’inizio del novecento o con la sua polverizzazione? Ciò che , comunque, a me pare molto interessante, è quanto scrive alla fine della sua Postfazione Donato Angeli: “Avrei voluto intervistarlo, Antonio Fiori, ma è risultato impossibile.” E poi: “Si è sempre sottratto con scuse, devo dire, abbastanza ridicole, tanto che, non conoscendolo di persona e non credendo alla timidezza di un sessantenne, sono arrivato a mettere in dubbio la sua esistenza, a pensare che, come i suoi poeti, anche Antonio Fiori non sia mai esistito.”
Che Antonio Fiori sia un sessantenne coltissimo e affabile, lo posso testimoniare di persona: lo conosco da quasi vent’anni, da quando, cioè, lessi con ammirazione la sua raccolta di poesie Sotto mentite spoglie, edita da Manni nel 2003. Mi viene invece il sospetto, non avendolo mai sentito citare e non avendo trovato tracce sue da nessuna parte, che a non esistere sia proprio il postfatore, Donato Angeli. Il che sarebbe il più giusto suggello a questo elegantissimo libro , nato da un’impostura letteraria, alla Borges per dirla tutta (seppure oltre Borges), che ci chiede di essere letto come un allegro apologo, non solo sull’apocrifia letteraria, ma sulla letteratura in quanto tale e le sue enigmatiche verità.

Su Antonio Fiori, La quotidiana dose, Lietocolle, 2006 di Giovanni Nuscis.
Di Antonio Fiori esce per i tipi di Lietocolle la raccolta di poesie “La quotidiana dose” – dopo Poesie ritrovate, Libroitaliano (1997), Almeno ogni tanto, per le cure di Crocetti (1998), Sotto mentite spoglie, Manni (2002) – che comprende due sezioni di testi recenti, “In vacanza” e “Ultime”, e una di componimenti tratti dalla raccolta “Almeno ogni tanto”.
La quotidiana dose – fughiamo subito ogni dubbio – è la dose di poesia che il poeta, ogni giorno, si concede; che si fa spazio, nei giorni, sbreco nel loro susseguirsi routinario, per irrorarvi la sostanza energizzante che li consacra ad uno scopo, togliendo polvere ed ombre che li sovrastano e li attraversano, come nubi di gelo. La poesia pervade, così, l’intera esistenza, diviene irrinunciabile, percorso incontrovertibile. E “chi si fa” di poesia, al pari di più serie dipendenze, raramente smette rinunciando alla sua dose giornaliera. Arthur Rimbaud è la più nota eccezione.
Entrando nei testi, scopriamo che il viaggio che dà titolo alla prima sezione (Né sfida né abbandono/sia spartano, sia dono./Al ritorno reliquia/non sia sfoggio/ma vita) è ben altro che una parentesi vacanziera in luoghi notoriamente vacanzieri. Ci annuncia, anzi, l’autore, il viatico valoriale del suo viaggio terreno e poetico, e il nostro viaggio di lettori lungo l’itinerario del libro; e col viaggio, la destinazione, e lo spirito …Al ritorno reliquia/non sia sfoggio/ma vita. Quattro settenari, di cui uno spezzato, da cui desumiamo la weltanschauung del poeta, la sua idea del mondo, dello stare in questo mondo. Quasi un manifesto etico, ma con la doverosa sobrietà; un s.o.s. dentro una bottiglia lanciata nell’oceano, quello dell’afasia o del chiacchiericcio inutile, ma non innocuo: perché sprezzante della complessità, della noiosa e lenta intelligenza, dei pensieri cupi… Eppure è la leggerezza a dominare, in un equilibrio di sintesi descrittive e percettive, come vedremo nella successiva poesia eponima alla sezione “In vacanza” (E così sia./Una giornata trascorsa/senza posta, senza notizie/è benvenuta, mitiga la vacanza/-ascolto nel buio le onde/il tempo di sabbia che scorre/-penso ogni tanto a chi manca.). Un’alchimia riuscita, dunque, di levità e profondità, in queste poesie di Antonio Fiori, di nitore e di fugace addensamento, per il dischiudersi o l’alludere a un’alternativa di senso, magari per via metaforica, come in “Lido”, per quella fede perduta la mattina dal padre e ritrovata da un fratellino, prima che il sole calasse. Episodio, precisa l’autore in calce al testo, realmente accaduto e che pure per un attimo ci spiazza, ci induce comunque a riflettere su altra possibile lettura. Versi essenziali nel numero e nell’impeccabile sintassi, capaci di condurre il lettore tra le increspature del pensiero e delle emozioni, come nei componimenti in cui evoca persone care scomparse, come il Francesco e l’Eugenio di “Eredità”.
L’agilità del libro, la brevità di molti testi paiono essere inversamente proporzionali alla densità dei temi e all’inadeguatezza del linguaggio; scelta di stile nient’affatto casuale da attribuire a “un’acuta consapevolezza della crisi stessa del linguaggio della poesia”, come evidenziò nella poesia di Fiori, da subito, Angelo Mundula (“L’Unione Sarda” 16 febbraio 1999); risposta forte e chiara a molta poesia ipertrofica e confusa, e al sempre più affollato e – forse, anche per questo inascoltato mondo dei versi. https://www.progettobabele.it/rec_libri/mostrarecensione.php?id=2292

Antonio Fiori e i suoi poeti

Sarebbe elenco assai lungo. Provo a contenermi. Tra gli autori italiani del Novecento, considero un riferimento Giorgio Caproni e Angelo Mundula, poeta e critico dell’Osservatore Romano che mi ha onorato della sua amicizia. Mi ha recentemente colpito un grande poeta dialettale, Raffaello Baldini, che si è autotradotto magistralmente (“Piccola antologia in lingua italiana”, pubblicata postuma da Quodlibet nel 2018). Tra gli stranieri del Novecento che rileggo più volentieri, ci sono: Federico Garcia Lorca, Octavio Paz, Jorge Luis Borges, Fernando Pessoa, Czeslaw Milosz, Louis Aragon, Christian Bobin, Rymond Carver.


In dono ad Antonio Fiori e ai lettori de Il Tasto Giallo, di Raffaello Baldini, da Furistír, 1988, Einaudi editore,

Bèla

La tòurna d’ogni tènt, par la su mà,
la sta póch, du tri dè, la n scapa mai,
mè pu a so sémpra fura.
A la ò incòuntra par chès, tla farmacéa
«Mo quant’èll ch’a n s’avdémm?»,
la m’è pèrsa piò znina,
«T’è i cavéll chéurt», ch’la i éva lóngh, sal spali,
la à céus i ócc: «Ta t’arcórd di mi cavéll?»

Vinicio u i éva fat una pasiòun.
E li gnént. Sa chi ócc véird e e’ maiòun zal.
U i era ènca andè dri Lele Guarnieri,
e la dmènga l’avnéva da Ceséina
a balè un biònd s’una Giulietta sprint.
Mè, la era tròpa bèla, a n m’arisghéva.

Dòp a la o cumpagnèda fina chèsa,
la à vért, o détt: «Cs’èll ch’avrébb paghè ‘lòura
par no purtè i ucèl»,
la à ridéu: «A s’avdémm fr’agli èlt vint’an»,
pu da e’ purtòun custèd, préima da cèud,
la m’à guèrs: «Ta m piesévi»,
senza réid, «Qanti nòti a t’ò insugné!»

Torna ogni tanto, per sua madre, | sta poco, due tre giorni, non esce mai, io poi sono sempre fuori. | L’ho incontrato per caso in farmacia, «ma quant’è che non ci vediamo?», | mi è sembrata più piccola, | «Hai i capelli corti», che li aveva lunghi, sulle spalle, | ha chiuso gli occhi: «Ti ricordi dei miei capelli?» || Vinicio ci aveva fatto una passione. | E lei niente. Con quegli occhi verdi e il maglione giallo. | Le aveva fatto la corte anche Lele Guarnieri, | e la domenica veniva da Cesena | a ballare un biondo con una Giulietta sprint. | Io, era troppo bella, non m’arrischiavo. || Dopo l’ho accompagnata fino a casa, | ha aperto, ho detto: «Cosa avrei pagato allora | per non portare gli occhiali!», | ha riso: «Ci vediamo fra altri vent’anni», | poi dal portone accostato, prima di chiudere, | m’ha guardato: «Mi piacevi», senza ridere, «quante notti t’ho sognato!»


Antonio Fiori è nato a Sassari nel 1955. Laureato in giurisprudenza, ha lavorato nell’amministrazione finanziaria e nel settore bancario. Nel 2004 è tra i sette poeti vincitori per la silloge inedita al Premio Montale Europa e nel 2019 ha ricevuto il riconoscimento ‘Per una vita in poesia’ al Premio Lorenzo Montano. Ha pubblicato: Sotto mentite spoglie (Manni, 2003), La quotidiana dose (Lietocolle, 2006), Trattare la resa (Lietocolle, 2009), In merceria (Carlo Delfino, 2012), Nel verso ancora da scrivere (Manni, 2018), I Poeti del sogno. Piccola antologia (Inschibboleth, 2020), Vita di un altro ( Inschibboleth, 2023), La stessa persona (peQuod, 2024).
Suoi testi sono apparsi su ‘L’immaginazione’ e ‘Gradiva’. Dal 2015 al 2019 ha collaborato come recensore al mensile ‘Poesia’. È redattore nelle riviste on line Avamposto poesia e Atelier poesia, collabora inoltre con Menabò, quadrimestrale internazionale di cultura poetica e letteraria.

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