di Alberto Bertoni

Pianissimo ad Altissimo

Il collo ciondolante nel nulla da pescare
-lenza senz’esca umida di bontate e cortesia-
Si lascia cingere d’amor cortese ascoso.
Nel sonnacchioso giardino riposa, complice,
L’allodola torbida d’annunci mattutini.

Ciclisti in salita sfrangiano il Giro nel sudore
Di un Sony discreto e appartato
Ch’enallumina radiante sonni e sogni
In un arrivo appannato.

Del mio desiderio non novo parla da un sipario
Aperto sul Duecento un libro cortese
D’ intellettual diletto. Sabbie e nebbie indolenti
Venute da lontano, di mano in mano trapassate,
Nel maggio snervato da spessamente chiamati amori.

Diretti al ventre, sotto a una camicia dai bottoni
Incerti, lacerti di miraggi assopiti, divi di giochi
Lontani sacri e profani nella bonaccia fuorviante
D’un sopore accomodante.

Si macchia di sole un tuono d’inchiostro
-ombre di Sorelle in un chiostro
E nel buio spessore la luce d’una voce
Che vola sfinita, pianissimo ad Altissimo-.
Si smacchia il risveglio su un traguardo già tagliato.
E non so chi ha vinto, se è il Duecento o uno sbadiglio sul passato
O un presente imbalsamato o altro tempo da almanacco illustrato.

*

Briciole alienate

Scodinzola umor biliare
Una melancolia senile in fasce.
Su una panchina
Si pasce un’era morta
In un sit in rapace.
-non ci fu mai pace-.
Guerra aggrovigliata
All’albero frondoso di mollica,
quanta fatica ad aspettare tempo
di robusta corteccia
-torre merlata senza breccia-.
( untuoso piccione mendico
Di briciole dorate,
ti do le mie alienate.
Dalla panchina gestatoria
Ti benedico
E maledico
Salvifiche indulgenze senza storia
Comprate a caro prezzo
A rate mai saldate).

*

Risveglio di una maschera

Scivola un groviglio di fibre
Nella mareggiata
D’un vorticoso silenzio.
Si fratturano le immagini porose
Senza dolore.
S’asciuga l’ombra spessa
Della nottata
In un bicchiere d’acqua per una bocca
Impastata.
Sul pontile nelle tenebre
C’era qualcuno:
forse un lume di lucerna
o uno scroscio di volti
o un crepitare di labbra secche
o un chiacchiericcio di larve.
O forse c’ero io,
l’acqua nel bicchiere nebuloso
per deglutire la giornata.
Dalla grotta oscura
A sorsi lunghi in gola
Cola la sorgente del mattino.
Un guizzo da Arlecchino
E l’eco d’un din-don
A scandire un inchino ballerino
“servo vostro, sior paron”.

*

Spugne di porfido
(sotto i portici)

Attiro un’inquieta giornata al palo
L’aggiogo alla filigrana del vissuto
E intiepidisco la brina dei sensi
Col calore muto soffiato
Dal tremolio accartocciato
Dell’archivio dei miei scompensi.
E poso le mani a croce sul muto
Fittone testimone di uno scialo.
-la città è un lungo sonno fase rem
incolmabile d’indolenza
lastricato d’impotenza
coro a cappella d’un muto requiem-
Un uomo non può più svegliarsi
-il sogno è un buio rappreso di gelo-
Sa che non ci sarà nessuna catarsi
-spugne di porfido assorbono il cielo-.

*

Ventuno di marzo

Non c’è più il fiume a lavare i pensieri.
Era ieri.
Cantieri di cemento e fanghiglia morta.
Non hanno odore
Le scorie d’un panta rei incolore.
C’era neve a chiazzare la verde risposta
D’argini di terra ed erba pulsante
Nel sangue in corsa.
La domanda se n’è andata con i volti
Estinti.
O s’è nascosta nella conta
-chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro-
E sminuzza il vento in polvere randagia
Il volto di quel busto di pietra che incute
Ancora rispetto e soggezione.
“su, alzati dal letto; il caffelatte è pronto”
Come il sole sul fiume che t’aspetta…
Vestiamoci in fretta!

*

La casa

Sull’aia addormentata di una casa diroccata
giacciono macerie ammonticchiate.
Non chiedono nulla.
Non hanno voce.
Veloce
un passo affannato
da ritardo perpetuo annulla
per un istante le ansie indottrinate,
s’arresta alle falde della montagna incantata.
Ascolta
il muto richiamo flautato
di sirene d’un passato in rivolta.
Sotto quella volta
sbrecciata d’oblio
silenzi di pensieri e voci e risate
e tragedie e feste consumate.

Io non sono Io.

Immobile un corpo chino
sul brusio di pietra accarezza il volto del destino.

Voi non siete Voi.

Ora lì e nella campagna intorno ondeggia
erba verde, linfa nuova nutrita da polverosa pioggia.

Noi non siamo Noi.

Depongo in ginocchio
I miei pensieri sul tumulo frusciante.
In tumulto, dal profondo pulsante, uno specchio.
Io.
Voi.
Noi.

IovoinoI.

IooI…

Via, goffo orso danzante.
Riprendi il ballo insieme agli altri a mendicare.
Attento ai vetri, alza il volume, vai, non ti voltare.
Dimenticare, dimenticare, dimenticare, dimenticare.


Davide Bonacini, è nato il 21 marzo 1953 alla periferia nord di Modena a pochi passi dal fiume Secchia, dove muore il 2 maggio 2024.
Rimasto profondamente legato a quell’ambiente ormai irrimediabilmente perduto, è cresciuto nella “swinging Modena” degli anni 60, stagione magica e irripetibile ricca di suoni e parole senza tempo.
La concezione e produzione poetica dell’autore si basa sull’assioma che la cosiddetta realtà sia una elaborazione della nostra percezione individuale mediata dai sensi.
Ha pubblicato la raccolta di poesie “I cartigli del tempo”, Aletti editore, 2007 ed è presente nell’ antologia “Voci accanto”, ed. Rossopietra, 2015).


In voga