prefazione al libro di Rosanna Frattaruolo

“Confidarsi innocenti” di Gian Maria Zapelli:
dall’être-à-deux alla conquista dell’identità

In principio era il due: si riassume in questa asserzione il fondamento su cui poggia, non solo il linguaggio poetico di Gian Maria Zapelli, ma anche la comprensione delle dinamiche sociali e culturali messe in scena attraverso l’architettura di Confidarsi innocenti.


V’è necessità di un interlocutore per mentire e per dire la verità. L’identità non è un concetto statico legato all’individualità, ma si realizza in una relazione dinamica; l’individuo esiste attraverso il riconoscimento, il confronto, il conflitto con l’altro: «È così, tu sono io / ed io ti sono tuo / e saperti tuo mi ricrea» (p. 72).
La matrice che codifica il libro è, dunque, la dualità che, partendo dal verbo contenuto nel titolo confidarsi – dal latino confidere, composto dalla particella cum (con) e fides (fede) – nell’atto di abbandonarsi completamente all’altro, implica l’instaurarsi di un rapporto di fiducia nella condivisione di un pensiero di innocenza.
La dualità si manifesta anche nella constatazione della mancanza – concetto diverso dall’assenza, fotografia istantanea della non presenza – che si accompagna a un sentimento di nostalgia per la privazione subita e di desiderio verso ciò che si è perso, traducendosi nella necessità di unirsi all’altro e all’altro che è in sé: «è così che mi so riunito» (p. 17), «arrivavo disgiunto / a cercare un rifugio cerusico» (p. 61), «ti amavo colpevole, disunito» (p. 65).
La poesia nelle mani di Zapelli diviene strumento di indagine nel processo di analisi e autoanalisi dell’antinomia introspettiva, ma anche di calibratura estetica della parola e del verso nella lotta tra desiderio di verità e paura di vulnerabilità. L’autore, rispetto al libro precedente Contare i demoni (sempre puntoacapo editrice, 2024), nel quale la versificazione era in espansione orizzontale sulla pagina, destruttura il verso in una sintassi spesso discordante.

Costruito con perizia, il libro presenta otto partizioni nelle quali si ripete la stessa architettura. Ogni sezione è caratterizzata dall’alternanza tra testi in tondo e in corsivo – questi ultimi tutti introdotti da uno stesso titolo che definisce l’altro nella relazione con l’io narrante e con altri soggetti: il secondino, l’amica, la sorella, il complice, la nonna, il padre, la maestra, il giornalaio. In esse è narrata in chiave poetica la connessione, la forma grammaticale d’appartenenza reciproca tra due individui che, legati da circostanze occasionali o necessarie, formano nell’interagire una diade; ad esempio: il carcerato e il secondino, il padre e il figlio, il fratello e la sorella. Una voce fuori campo, quella dell’autore, a fine sezione e tra parentesi quadre, sintetizza un finale, anche ipotetico, di reintegrazione nell’Uno.
Le potenzialità narrative si moltiplicano in una condizione di confinamento simbolico, sfociano nel conversare, nel ri-trovarsi insieme nell’insopprimibile bisogno di guscio, di bordure che tengano insieme i frammenti delle vite – perché «so che più spazio si fa per sé / più scomodo [è] accogliersi»: «Oggi tento nuovo un allineamento, / […] i debiti restituiti al passato / e ridotto lo spazio per rannicchiarmi, / da dirmi, mi basta, “buon giorno”» (p. 95) – e nel bisogno di evasione che si fa più pressante quanto più lo spazio a disposizione si restringe: «lo spazio dosato in centimetri / li moltiplichi da crearti distanza, / mai toccarsi» (p. 33).
È nella consapevolezza della reclusione, quale condizione peculiare dell’uomo moderno, che si aprono nuovi spazi di coscienza e di conoscenza del mondo interiore. E solo dopo aver scontato la pena, aver consumato il dubbio, si può tornare «a contare / da uno, dall’inizio» e diventa «prima l’aria», come se non avessimo mai respirato, «primo il sole», come se non avessimo mai visto luce, e anche il dialogo con l’altro avviene con prime parole (p. 17). Il dubbio, nato dalla consapevolezza del male che si contrappone al bene, ma anche dalla possibilità di opporre una verità alla menzogna, il perdono alla condanna, segna la presa di coscienza. Il dubbio, l’interrogarsi e l’interrogare l’altro, simboleggiano, dunque, la relazione binaria dell’Uno con l’Altro, l’être-à-deux: «le persone sono come nuvole [ripete la madre] / vi entri e non sai dove ti trovi / sono le domande [i dubbi] a riempirle di raggi / e farti vedere chi sei e dove» (p. 20).

Les prisons trouvent toujours des gardiens» scriveva J. Prèvert, e i guardiani trovano sempre una prigione, si potrebbe aggiungere. Nella prima sezione – Una terra dall’esilio: il secondino – è interessante sottolineare come il carceriere, «aguzzino, farlocco, a volte agente», sia costretto dalla propria prigione di rabbia e dolore a scavare aria e a «crederlo questo cielo» (p. 22). «Ma non è il muro la prigione» (p. 19), scrive Zapelli. «Estraneo ti vorrei, / ma tu sei me, indelebile» è l’impronta di stirpe che ingabbia il figlio che inizia «prima di iniziare […] / con la [sua] ipoteca» (p. 71).
È «proprio il sangue [che lo] ammanetta» (p. 38): «Inzuppati dello stesso sangue, / fratello e sorella siamo cuciti / statuto e destino di essere uno» (p. 37). La stessa vergogna o il senso di colpa, ripresi in più testi dell’opera, sono catene che tengono imbrigliato l’individuo fino a quando lo stesso non si rivolge uno sguardo altro di perdono.
Portarsi all’inizio non significa allora regredire o rintanarsi al fondo della memoria dell’infanzia, ma è l’«aver trovato grazia / un asilo di complicità / averla sempre avuta / e solo ora averla» (p. 45): fratello e sorella si affrontano guadagnando reciprocamente la loro identità, attraverso il perdono: «Ci occorre il perdono, / non per lui, non per levargli un peso / perdonare per noi, / per donare a noi / capienza più grande di aria / spazio più largo di respiro» (p. 44).
L’identità, infatti, non è la conseguenza naturale della nascita, né si acquisisce con la registrazione all’Anagrafe, ma s’identifica con l’unicità rafforzata o mortificata dal riconoscimento o misconoscimento da parte dell’altro, anche attraverso l’esercizio della memoria: «nelle macerie sapermi ricordato […] / il tuo dono tenermi ospitato» (p. 27), e il sentire la mancanza dell’altro.

L’adozione del filtro letterario è il tentativo estremo di ristrutturare l’io nella dimensione altra e alta della letteratura. La scrittura, e prima ancora la lettura, diventano una strategia di liberazione: «Devi averle tue le parole / per sprigionarti. / Anch’io […] / ero in prigione anche di verbi negligenti […] / Leggere è diventata la mia chiesa / per aggrumarmi, / nelle pagine cercavo sostantivi / da scarcerarmi con un mio lessico, / un idioma da iniziarmi / e sapermi chi sono, / le mie crepe e le travi» (p. 21).
Confidarsi innocenti è un libro carico di enigmi. Appare sorprendente, quasi a non voler esaurire mai il suo significato, impregnato com’è di ambiguità e polisemia. Il lettore è chiamato a un’attenzione particolare che gli consente di percepirne l’appartenenza in alcuni frammenti piuttosto che in altri, di riconoscersi nel sentire più che nel comprendere sintatticamente il
verso.


Estratti dal libro

Un sisma la sorpresa
il tuo nome
sentirlo dal secondino,
raggiungevi il galeotto da incontrare
con lo zolfo del passato,
gli anni convocati tutti insieme
Un tavolo a dividerci l’ingorgo
da toglierci voce e tutte le domande,
in due due volte: “ciao”
inizio e conclusione,
in mezzo un’ode di ricordi,
l’intimità che ci insegnò la pelle
e la moltiplicò.
Grazie di quella visita,
nelle macerie sapermi ricordato
senza tempo sapermi ancora nel tuo tempo,
il tuo dono tenermi ospitato.

(p. 27)

*
L’amica

Per ricavarmi un contorno
custodisco quando mi sono affilata,
i crocevia dove ho preso il sud.
Pur se congedata dal tuo appoggio
tu mi sei rimasto inizio e zenit.
Rimane quel che ci inizia,
un fiore tra le pagine,
lo tieni e lo dimentichi
secco resiste
e vuoi tenerlo.
Di te ho saputo per caso
il furto maldestro nella libreria,
la stessa dove subito ci intonammo.
Non ti ho cercato per curiosità,
immaginavo la tua croce,
smarrito e sconnesso
come quando mi fingevi un sorriso
e da me volevi un oroscopo
che ti eri perduto nelle tue ferite.
Ti vidi e ho visto altro,
eccome, anche nuova un’iride
eri lì davanti
da te eri evaso,
estratto dalla siccità.


(p. 28)

*
Il complice

L’ho sperato
che qui ti sedessi
qui davanti:
da sapermi ancora nel tuo canto.
Lo sai,
più di un anno mi manca,
e i tuoi tre potevano essermi cifra nemica
di più se pagata in gattabuia,
ripulito dalla mia macchia.


(p. 49)

*
Da te ho i lunari al plurale
le gambe per correre parallele
le acrobazie sicuro dei tuoi polsi
i tuffi a seguirti sghembo in aria,
insieme principianti di vertigini
insieme decifrarci il palato
le prime labbra delle ragazze,
come dare un bacio
e chissà un altro,
insieme gli spaventi e i sollievi.
Tu equatore
del mio nord e del sud,
amico mio, amico.
Tu lo stesso, mio spirito.
Comune il nostro orlo smagliato,
complici di uguale argilla.

Gian Maria Zapelli nasce e vive a Lecco (1960). È laureato in filosofia, con una specializzazione in psicologia. In poesia ha pubblicato: Senza Rammarico (Manni 2014); Prosodie dell’anima (ivi 2015); Il silenzio tra le parole (Nulladie 2017); I desideri che arrivano adesso (Eretica edizioni 2018); Penelope. Nonostante Ulisse (ivi 2021); Antologia del domicilio (peQuod 2022); Contare i demoni (puntoacapo 2023). Il suo lavoro Antologia del domicilio, è stato selezionato nel Premio Rilke ed è stato finalista nel Premio Nazionale Elio Pagliarani e nel Premio di poesia edita Paolo Prestigiacomo. La sua poesia deve molto alla sua formazione e sensibilità psicologica, nonché alla professione di counselor e coach, per più di 30 anni dedicata a disincagliare emozioni e desideri. È infatti autore di molti saggi di psicologia. Gli ultimi: Attraverso le crepe. Sul cammino delle ferite (Nulladie) La comunicazione introspettiva. Un atlante per parlare con la propria psiche (Edizioni FS), Dizionario sentimentale. Vocaboli per conversare con sé stessi (Vita Activa).


Dell’autore leggi anche: Contare i demoni di Gian Maria Zapelli (puntoacapo editrice)

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