“L’assente” di Fabio Prestifilippo e la sua tramutazione nell’Altro

di Rosanna Frattaruolo

In “L’assente” (Fallone editore 2025) i versi di Fabio Prestifilippo, criptici e piuttosto frammentati, costringono il lettore a restare sulla soglia; ogni tentativo di affaccio al significato dà le vertigini per la difficoltà di tradurlo in uno scenario reale. I versi in esergo di Eliot tracciano una possibile idea del percorso di lettura del libro, superando l’ostilità di attraversamento della superficie del linguaggio, affinché sia almeno intuibile il suo abisso.
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L’autore costruisce un universo in cui la frattura tra l’uomo e il suo corpo, in termini di crisi dell’identità moderna, definisce il ritmo e il senso dell’intera opera. Da questa crepa affiora l’Assente, protagonista dei versi contenuti nelle quattro partiture del libro – Senza luogo, La colpa, La possibilità, Lo splendore del sì, Cartoline da Lambrate.

L’uomo moderno, «accartocciato in un angolo, / fumante, nudo» (p. 19) rivuole il corpo, ma «ha perso la sua misura», il rito che, attraverso la parola, gli riconosceva una funzione simbolica; non sa più come abitare la propria carne: si sente addirittura colpevole – «l’assente / parla il linguaggio / della colpa», p. 34.

Il corpo diventa campo di battaglia tra forze che si scontrano in una guerra d’ossa, una battaglia in cui non serve opporre resistenza, «essendo [la carne] un reggimento di terra che crolla» (p. 36). Il contatto con la fisicità si trasforma in una tensione archetipica: l’uomo si muove tra la pietà per il corpo segnato dalla malattia, spogliato di ogni bellezza, destinato alla fine, e per questo, non giudicabile – Prestifilippo chiede: «tu1 vorresti giudicare i corpi? […] / quando al corpo è negata la bellezza» (p. 18) – e i tentativi di recuperarlo attraverso la possibilità, l’eros, come se il godimento potesse salvarlo dalla condanna dell’assenza: il corpo diventa accogliente (p. 41) – «l’assente allora cede il suo posto» (p. 42) – trionfando in «tutta la gioia del sesso» (p. 43).

L’identità dell’assente non è stabile, né riconoscibile, ma «abita ciò che avanza» (p. 56)gli interstizi, le zone d’ombra – e, per questo, chiede compassione nei momenti in cui «discende la china» – una metafora che indica il ritorno inevitabile alla caduta, alla perdita di sé, alla ricaduta nel buio. Neppure l’interlocutore a cui ogni tanto l’io poetico si rivolge è definibile, originando una relazione profondamente problematica e ambigua, un dialogo che, non realizzandosi mai pienamente, si traduce in un monologo interrotto: domande che cadono nel vuoto (pp. 18-23). Il tu occupa sicuramente una posizione elevata – «alzerei / anch’io gli occhi / per dirti» (p. 65), interpretabile come una figura divina o, comunque, investita di autorità simbolica, a cui il poeta si rivolge, senza ottenere risposta, con toni che oscillano tra l’invocazione, il dubbio e la ricerca di senso.

L’assente si espande e si fa moltitudine in «una casa costruita / su molti piani» ed è la città stessa a farsi archivio di tutti i possibili assenti. L’assente abita il silenzio delle stanze e «ha la forma di una lunga parete bianca [sulla quale si stagliano] aghi e tubi che scandiscono le ore, / un contagocce da cui intravedere / un volto caro» (p. 20); ma è anche nel frastuono dei bambini che copre la voce di chi «chiama […] / prima di lanciarsi urlando // e proprio oggi l’assente / vuole la morte» (p. 21). Nel «mucchio, / […] nella solitudine di una stanza, / così tra le scapole / che accolgono il trauma di un colpo / sul seno, sulla gamba, // […] l’assente rivuole la sua carne / e il sesso la moneta d’oro del riscatto (p. 33) e «non c’è una parola / che possa consolare / l’assente privato della bellezza» (p. 28).

La stessa parola – capace di seppellire ciò che prima ha reso vivo: nominare l’assente è riconoscerlo, decretare la sua morte è seppellirlo: «l’assente non è morto / se non parli», p. 19 – fa rinascere «l’uomo dopo il buio»: «l’assente scomparso, lo fa splendere nelle ossa» (p. 57).

In tale condizione liminale, in cui né le figure, né i luoghi, né l’interlocutore si offrono in modo definito, l’assente si evolve, non per «una [sua] volontà nello stare» (p. 55); è la parola poetica – non una qualunque, quella elemosinata morirà col corpo (p. 27) – capace di nominare, di riconoscere, di ricostruire ciò che si era dissolto, di seppellire ciò che aveva invitato a nascere. «Bisogna dire delle parole, fin tanto che ce ne sono, bisogna dirle, fino a che non mi trovano» scriveva Beckett2, e la lingua, nei suoi tentativi di ricomporre un senso, astraendo dall’esito, ne mantiene aperte le possibilità.

È nello splendore del sì, «nelle mani della madre / che l’assente incontra il corpo» (p. 61) e diventa l’Altro, che, sulla soglia, ha un corpo giovane quindi, porta con sé la promessa del nuovo, della rinascita, della possibilità – e «parla il linguaggio dell’alba» (p. 53) «che irrita i sensi» (p. 61) un linguaggio primordiale, non ancora contaminato dal giorno e dalla parola ordinaria.

Il colloquio tra l’assente e l’altro è un momento di crisi identitaria – «sentire accumularsi nel costato / il desiderio di una voce» (p. 55) – e di rivelazione: l’Altro prende coscienza dell’assente, riconoscendolo «come il ricordo / di una stanza vuota, / fresca di gesso, bianca // quella cosa silenziosa / che non riguarda nessuno […] // è in ogni tua memoria, / ti conta le ore/ per un riscatto a strozzo // è l’ospite inatteso / che bussa dopo il buio» (pp. 58-59): è il momento in cui l’assente si confronta con «l’altro [che] è nel riflesso» (p. 65), con la paura – il mostro – per ciò che sta per iniziare (l’alba, l’altro) perché «è brutale ogni volta rinascere (p. 67).

L’indeterminatezza attraversa l’intera raccolta: le figure – l’altro, l’assente, le sagome, i corpi – non sono mai pienamente determinabili (eccetto che per enrico); sono presenze indistinguibili, quasi proiezioni interiori. Anche i luoghi evocati nei testi non sono mai riconoscibili in modo preciso: scenari senza tempo, stanze dai margini indefiniti si traducono in uno sfondo instabile, quasi onirico. Questo gioco di Prestifilippo di smarginare pare affievolirsi nell’ultima sezione nella quale la morte s’accasa nella narrazione surreale di fatti drammatici su precise coordinate spazio-tempo: 7 dicembre 1965, Milano (p. 66), «le 5 del mattino / nel luogo più violento della terra / da Rogoredo a Bande Nere» (p. 67). Le figure assumono ruoli precisi nelle dinamiche delle relazioni umane: figli con padri e madri. Come dire: l’assente non è più figura astratta, distante, ma ci abita e ci cammina accanto. La sfida è stanarlo attraverso la parola poetica.

1 Mio corsivo.

2 S. Beckett, L’innominabile in Beckett Romanzi, teatro e televisione, trad. Gabriele Frasca, Milano, I meridiani, Mondadori, 2023, p. 1101


Estratti dal libro

da Senza Luogo

la prima parola con cui attendiamo l'assente

lo vedi che rivuole il corpo
l’uomo che ha perso
la sua misura,
accartocciato in un angolo,
fumante, nudo

(p. 17)

*
se penso che i corpi moriranno
e con loro quell'elemosina di parole
che hanno avuto a corredo per tutta la vita

il dramma che ha sopportato
finisce nell'assente

lo chiamano il corpo, il parlante

(p. 27)

*
da La colpa

l'assente
parla il linguaggio
della colpa

ma nelle cose
entra il veleno dei gesti umani
e forse nella bellezza trovi
l'isola di un’ora

(p. 34)

*
da Lo splendore del sì

il corpo giovane parla
il linguaggio dell’alba

teso sulla finestra del mondo
attende quel silenzio:
la madre che ancora
gli respira intorno
la madre che con la mano
gli ridona il sonno

Fabio Prestifilippo, nato a Casalpusterlengo, ha collaborato con la casa editrice Lietocolle dal 2010 al 2022. Le sue pubblicazioni: L’assente (Fallone editore, 2025), Movimenti (LietoColle 2011) e Abitare la traccia (Collana gialla pordenonelegge 2019). Alcuni suoi interventi critici sono comparsi su “Imperfetta Ellisse” e “Atelier”.


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