a cura di Rosanna Frattaruolo
da Linee di mira
Mezzogiorno. Viva e capiente l’ombra
tra i polmoni. E io, che non so guardarmi sparire,
perché rimanga verde oltre la cinta
un filo d’acqua, fumo e non cedo all’evidenza
(si è benedetti senza lingua
se mente un salice al cervello),
e punto i piedi dove credo
sia la traccia, per odiarmi.
***
Mi dici in sogno
il volo necessario,
in che palude hai gli occhi buoni
e come credi sia peccato
solo splendere di noia
nel digiuno. Non l’alcol,
non il fuoco delle croci
o l’edera avvinghiata alla mia estate,
sei tu che acceleri l’arcano
in questa terra che mi torce
e mi assicura, il tiepido lunare...
***
La pietra che trivella è il suo silenzio.
Del resto, non lo avvince più una
rabbia radicale, rozza di fichi e
salicornie, muri a secco, verdolini...
Spicca nel timore dell’aperto
l’eremita. Corre il rischio di capire. Era
solo un nome a camminargli in cuore
fino all’estasi o alla riva.
da Calata
Se piove forte offendi un’altra sete
il vecchio annuvolato
la lingua dei burroni. Sciogli i cani
dov’è pregna, sputa per adesso. L’ardore
è una fiumara troppo stretta per sparire.
L’ardore è l’altra sete che giochicchia
con cupole e con mosche,
con cupole e con fischi di limoni;
che dice: Voglio inverno inverno voglio
inverno comeazzurro per salire.
*
Si cchiovi forti ngiura n’atra siti
’u vecchiu ntrubbuliatu
’a lingua ri sdirrupi. Sciogghi i cani
aùnd’è prena, sputa pi ccamora. L’arduri
è na sciumara troppu shritta mi t’a squagghi.
L’arduri è l’atra siti chi zannìa
chi cùbuli e chi muschi,
chi cùbuli e chi frischi ri limuni;
chi ddici: Vogghiu ’u mbernu ’u mbernu vogghiu
’u mbernu ancumarinu pi nchianari.
***
Gli intriga gli occhi un’ape
all’alba. È rossa e non è sangue
che avvelena. Fredda e non è neve
sembra niente – il capo basso
per sentire come viene. Ma figlio
quanta luce intimidisce e lascia soli?
Di troppo cielo muore un cardellino.
*
Nci mbrogghia l’occhi nu lapuni
quandu bbrisci. È russa e non è sangu
chi mbilena. Fridda e non è nivi
pari nenti – ’a testa mbàscia
pi sintiri comu veni. Ma figghiu
quanta luci ntimurisci e dassa suli?
I troppu celu mori nu cardiddhu.
da Secunda Clavis
Ecco,
perché l’ombra
di un pensiero la afferri e non finisca
questa notte, questa voglia, gelando
il primo grido,
farei di lei la foglia che frinisce,
nessun mistero oltre la pelle.
da Crisalide
La tana è muta. – Qualcuno, in quel poco
di disordine là fuori, nella canea
tra certe figurine, troverà eccitanti
la breve traversata il cambio chiave,
alle prime avvisaglie di fumo
negare gli occhi alle ossidiane
o attendersi al binario con un libro
un fischiettio… Non io, nemmeno tu,
ma qualcun altro. Chissà, forse «libero!»
è impostura, defezione – intervallo
di fresco tra due cerchi – un barbagliare
indefinito, e dopo tutto un vuoto.
***
Bugia nascosta
tra rami di fico, pagina che osservi truce
femmina impossibile, o irrequietudine del giorno.
Fatti avanti nella casa incarbonita, sii
la pozza dove bere
ora che è selvaggio
sragionato il grido,
ti si sfascia il volto per il vero,
quell’ordine di luce che disprezzo.
Scrivi
è un’etica la forma.
Fatti avanti, più leggero.
***
La rotta è spesso
l’inganno lungo di vederti.
Per l’aria, per lo sdegno che rovesci
l’ansia muta, quasi assente,
la foglia trascinata alle banchise,
un orso viola stare fermi
o stringersi all’altare.
Dalla postfazione di Giancarlo Pontiggia
[…] Resistenza e sparizione, la nuova raccolta di Bertolino, sembra approfondire proprio il tema della sete, portando all’estremo un’idea di poesia che si muove tra ribellione e disciplina: «Farla finita, non mentire», come leggiamo in una delle prime poesie, ma esercitando la propria resistenza dentro un paesaggio e una lingua coerenti e definiti. E il paesaggio che qui si profila è quello delle origini, che già avevamo esperito nella raccolta precedente, ma non con la stessa selvatica virulenza di ora, la stessa «fame di radici» e di «arcano» che agisce in queste pagine, dove il ricorso – per un’intera sezione – al dialetto reggino svela tutta la carica delle scelte, e la forza dell’inabissamento. Qui i motivi dell’ardore, della rabbia, della solitudine sembrano farsi una cosa sola con gli emblemi della terra, dove le presenze animali e vegetali svelano qualcosa di inquietante e di residuo. E terra è qui anche l’agglomerato urbano: «Città grembo», infatti, cui si addice la similitudine della vite e dei tralci (Città grembo. Di me) […] La crudezza naturalistica della lingua non fa che esaltare questo procedere «a strappi, fasi alterne» (Chiamo apertura questo vuoto in terra), che non è mai una rinuncia al poetico, semmai una questione di metodo, e cioè di aggiramento – da parte dell’io – della materia: Bertolino è un poeta elusivo nella forma, non nella sostanza del suo dire. È anzi, paradossalmente (ma il paradosso è parte della sua poetica), un autore che tiene ai legami – di natura concettuale o associativa – che va stringendo verso dopo verso, delineando ogni volta dei bivii, delle scelte […]
Sergio Bertolino è nato a Reggio Calabria nel 1984. Laureato in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Torino, è docente di Lettere, cantautore, co-fondatore e co-direttore di Avamposto. Ha pubblicato le raccolte di versi Chiave di volta (Nulla Die, 2018), La sete (Marco Saya, 2020 – Premio Umbertide XXV Aprile 2022 e menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2021), resistenza e sparizione (Avagliano Poesia). Suoi testi sono apparsi su antologie, riviste e blog letterari.





